TRUFFA PER L’AVVOCATO CHE DICHIARA AL CLIENTE UN COMPENSO PIU’ ALTO DI QUELLO LIQUIDATO DAL GIUDICE

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONE SESTA PENALEha pronunciato la seguente:  Sentenza n. 17565 depositata il 27 aprile 2023
RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Roma confermava la sentenza con cui il Tribunale di Velletri aveva condannato (OMISSIS) alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione nonché di Euro 800 di multa per i reati truffa (articolo 640 c.p.), tentata truffa (articolo 56 c.p.; 640 c.p.) e infedele patrocinio (articolo 380 c.p.). In particolare, quanto alla truffa (capo a, n. 1) e al patrocinio infedele (capo b), a (OMISSIS) e’ stato ascritto di aver dichiarato falsamente alla persona offesa (OMISSIS), suo assistito, che il giudice aveva indicato in sentenza, oltre all’importo del risarcimento del danno, 120.000, 00 Euro anziché 20.000, 00 Euro a titolo di onorario, sicché l’imputato, giustificando presso il suo assistito l’eccessivo importo affermando che avrebbe a breve ricevuto ulteriori 500.000, 00  Euro a titolo di risarcimento, lo induceva in errore facendosi consegnare 100.000, 00 Euro, somma così ridotta rispetto all’originario importo, nelle seguenti modalità: 20.000, 00 Euro in contanti e otto assegni da 10.000, 00 Euro. Quanto alla tentata truffa (capo a, n. 2), a (OMISSIS) e’ stato ascritto di aver cercato di farsi consegnare altre somme di denaro, formando due atti pubblici falsi, in particolare la comunicazione della sentenza alle parti da parte del Presidente di sezione della Corte di appello civile di Roma, sentenza in realtà mai pronunciata, e la ricevuta della comunicazione di cancelleria inoltrata all’indirizzo PEC del suo studio, comunicazione in realtà mai effettuata, dissuadendo il suo assistito dall’assumere personalmente informazioni presso la Corte di appello, ovvero riferiva al suo assistito che per ritirare la sentenza gli avrebbe dovuto consegnare i 20.000 Euro residui a titolo di onorario ed ulteriori 70.000 Euro per il secondo grado di giudizio, senza tuttavia riuscire nell’intento a causa del rifiuto opposto da (OMISSIS), il quale nel frattempo era venuto a conoscenza della truffa. 2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso (OMISSIS) che, per il tramite del suo difensore, avvocato (OMISSIS), deduce i seguenti motivi di ricorso: 1. Violazione del divieto di bis in idem in relazione alla condanna per tentata truffa (capo a, n. 2), essendo stato (OMISSIS) già condannato per i delitti di falso per gli stessi fatti, realizzati nel medesimo arco temporale e fra gli stessi soggetti, a seguito di un procedimento nel quale (OMISSIS) si costituiva parte civile chiedendo il risarcimento dei danni che il giudice disponeva dovesse avvenire in separata sede. 2. Errata applicazione della legge penale in relazione all’ipotesi di tentata truffa e vizio di motivazione. Secondo il ricorrente, gli atti posti in essere dall’imputato non erano idonei a realizzare il delitto, dal momento che (OMISSIS) avrebbe potuto in qualunque momento recarsi presso la cancelleria della Corte di appello civile di Roma e chiedere notizie del procedimento, oppure farsi accompagnare da un qualsiasi altro avvocato, essendo “risaputo che l’Ufficio informazioni della Corte di appello civile rilascia informazioni sullo stato di un procedimento, anche senza un R.G., con unicamente il nome e cognome della parte”. 3. Errata applicazione della legge penale in relazione all’infedele patrocinio. L’imputato non avrebbe mai violato i principi di lealtà, buona fede e correttezza che contraddistinguono la professione legale ed avrebbe, anzi, adempiuto al mandato professionale in maniera scrupolosa, avendo sempre comunicato al proprio cliente lo stato del procedimento civile di risarcimento del danno che lo riguardava. D’altronde, il giudizio di primo grado, durato circa due anni – quindi un tempo più che ragionevole – si e’ concluso con una sentenza che gli ha riconosciuto un danno di 700.000 Euro. La controparte ha impugnato la sentenza e, nonostante ne avesse chiesto e ottenuto la sospensione dell’esecutività per l’importo eccedente Euro100.000, a (OMISSIS) e’ stata comunque corrisposta una somma superiore a 220.000 Euro. 2.4. Violazione e falsa applicazione dell’articolo 546 cod. proc, pen. e dell’articolo 133 c.p. per omessa motivazione sulla commisurazione della pena, nonostante i giudici si siano ampiamente discostati dal minimo edittale. 2.5. Violazione e falsa applicazione dell’articolo 546 cod. proc, pen. e degli articoli 62-bis e 69 c.p.. I giudici non avrebbero considerato l’attività lavorativa dell’imputato, il suo status personale e culturale e non avrebbero bilanciato l’aggravante di cui all’articolo 61 n. 7 c.p. (danno di particolare gravità) con le attenuanti generiche non riconosciute. CONSIDERATO IN DIRITTO. 1.1. I primi due motivi di ricorso sono inammissibili, in quanto reiterano doglianze cui il giudice dell’appello ha già fornito completa e coerente risposta e sfuggono, dunque, al sindacato di questa Corte. 2. In particolare, alla dedotta violazione dell’articolo 649, comma 2, c.p. in ragione della precedente condanna dell’imputato per il delitto di falso, i giudici di secondo grado – assumendo implicitamente ma correttamente che il rilievo concerna la contestazione del capo a, n. 2) – ha già replicato escludendo la configurabilità del lamentato bis in idem, in quanto i delitti di falso, posti a tutela di diverso e pubblicistico bene giuridico, sono soltanto uno degli artifizi o raggiri realizzati dall’imputato in danno degli interessi patrimoniali della parte offesa nell’ambito di una più ampia e articolata vicenda storica che integra anche gli altri estremi della tentata truffa, finalizzata al conseguimento di un interesse patrimoniale con danno per il (OMISSIS). 3. Manifestamente infondati appaiono altresì i rilievi dedotti nel secondo motivo di ricorso, relativi alla supposta inidoneità degli atti posti in essere dall’imputato per realizzare la tentata truffa di cui al capo a, n. 2). Sul punto e’ appena il caso di ricordare che il requisito della “idoneità” nel tentativo (articolo 56 c.p.) va valutato ex ante, sulla scorta delle conoscenze disponibili al momento della realizzazione degli atti da parte del soggetto agente. Ciò premesso, i giudici dell’appello hanno avuto cura di precisare che la probabilità che l’azione delittuosa fosse portata a compimento risulta, nel caso di specie, incrementata dal rapporto di parentela tra l’imputato e la parte civile (cognato di (OMISSIS)) – suscettibile di rafforzare la fiducia della persona offesa nel proprio difensore -, e desumibile dalle specifiche modalità comportamentali di (OMISSIS), che dissuadeva l’assistito dal proposito di accedere personalmente presso la cancelleria, rappresentando falsamente come tale accesso potesse avvenire soltanto a mezzo di difensore. 4. La sentenza di secondo grado va dunque confermata quanto all’affermazione di responsabilità per i delitti di truffa (articolo 640 c.p.) e di tentata truffa (articolo 56 c.p.; articolo 640 c.p.) di cui ai capi a 1) e a 2). 5. Merita invece di essere accolto il terzo motivo, relativo alla configurabilità del delitto di patrocinio infedele (articolo 380 c.p.), sebbene per ragioni non coincidenti con quelle rappresentate nel ricorso. Sul punto, va premesso che la fattispecie di cui all’articolo 380 c.p. e’ descritta quale reato di evento, che consiste in un “nocumento” agli interessi della parte, concettualmente distinto dalla condotta di violazione dei doveri professionali (Sez. 6, n, 5764 del 07/11/2019, dep. 2020, Spadafora, Rv. 278209), ma che, secondo una giurisprudenza di questa Corte, non necessariamente va inteso in senso civilistico quale danno patrimoniale, potendo pure consistere nel mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, anche solo di ordine morale, che avrebbero potuto seguire al corretto e leale esercizio del patrocinio legale (Sez. 5, n. 22978 del 03/02/2017, Strammiello, Rv. 270200, relativo ad un caso in cui la condotta del professionista aveva determinato un allungamento dei tempi del processo penale, conclusosi con esito negativo per la persona offesa patrocinata). Anche ad aderire a tale orientamento (che tuttavia determina una potenziale sovrapposizione tra evento e condotta “violazione dei doveri di diligenza”), resta pur sempre il fatto che il tipo di cui all’articolo 380 c.p. presuppone la pendenza di un procedimento. Tanto si desume dal testo legislativo, ove fa riferimento alla “parte difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’autorità giudiziaria”, e, soprattutto, dalla collocazione sistematica della fattispecie (posta tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia), la quale ha indotto la dottrina ad individuare il bene tutelato nel pubblico interesse a garantire il corretto e leale funzionamento dell’attività giudiziaria da parte dei patrocinatori e la giurisprudenza di legittimità a caratterizzare in senso “endoprocessuale” l’area di operatività del reato (Sez. 5, n. 22978 del 03/02/2017, Strammiello, cit.; Sez. 6, n. 8617 del 30/01/2020, Bruno, Rv. 278710). In altre parole, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’articolo 380 c.p., occorre accertare la realizzazione di un danno discendente dalla gestione della causa nel cui ambito si e’ verificata la violazione dei doveri di diligenza. Se e’ così, e tornando al caso di specie, sebbene segnato da una spregiudicata violazione dei doveri di correttezza professionale nei confronti dell’assistito, il fatto contestato a (OMISSIS) – aver dichiarato alla parte un esito giudiziario diverso da quello reale, quanto all’importo delle spese di difesa liquidato, ed essersi fatto corrispondere, di conseguenza, un compenso superiore a quello disposto dal giudice – si colloca al di fuori dell’ambito processuale (senza, peraltro, che dalle sentenze di merito emergano elementi denotanti mala gestio professionale). Non arreca, pertanto, danno all’interesse pubblicistico, rispetto al quale l’interesse della parte può trovare tutela in via meramente accessoria, come pure dimostrato dal fatto che, a ritenere diversamente, ci troveremmo – questa volta sì – al cospetto di un bis idem rispetto al delitto di truffa, già ascritto all’imputato, che verrebbe, dunque, punito due volte per lo stesso fatto. 6. La sentenza impugnata va, quindi, annullata, limitatamente al delitto di patrocinio infedele contestato al capo b), con rinvio per nuovo giudizio sul punto, nell’ambito del quale il giudice, oltre a rideterminare la pena complessiva, provvederà a liquidare, a favore della parte civile, le spese relativamente ai reati non investiti dalla decisione di annullamento. 7. Il quarto e il quinto motivo di ricorso, sul trattamento sanzionatorio e la mancata concessione delle attenuanti generiche non possono essere valutati, poiché non previamente devoluti in appello (ex articolo 606, comma 3, ult. parte, c.p.p.). P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’articolo 380 c.p., con rinvio per nuovo giudizio su tale capo ad altra sezione della Corte di appello di Roma. (@arubert)
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