VACCINO ANTICOVID-19: OBBLIGATORIO?

A PROPOSITO DELL’OBBLIGATORIETA’ DEL VACCINO ANTI COVID19 LE TESI DI ICHINO E SCARPELLI, ENTRAMBI DOCENTI DI DIRITTO DEL LAVORO.
Professor Pietro Ichino, c’è chi ventila l’ipotesi di rendere obbligatorio il vaccino. Giuridicamente è possibile? «Non solo si può, ma in molte situazioni è previsto». Da quale norma? «L’articolo 2087 del codice civile obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure suggerite da scienza ed esperienza, necessarie per garantire la sicurezza fisica e psichica delle persone che lavorano in azienda, il loro benessere». Intende che può imporlo? «Non solo può, ma deve farlo. Ovviamente se è ragionevole. In questo momento non lo sarebbe, perché non è ancora possibile vaccinarsi. Ma, via via che la vaccinazione sarà ottenibile per determinate categorie — per esempio i medici e gli infermieri — diventerà ragionevole imporre questa misura, finché l’epidemia di Covid sarà in corso». Non è un’imposizione troppo nvasiva? «Chiunque potrà rifiutare la vaccinazione; ma se questo metterà a rischio la salute di altre persone, il rifiuto costituirà un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro». O ti vaccini o ti licenzio? «Sì. Perché la protezione del tuo interesse alla prosecuzione del rapporto cede di fronte alla protezione della salute altrui». C’è già l’obbligo di mascherine e distanziamento. «Finché non c’è la possibilità di vaccinarsi, sono le uniche misure di sicurezza possibili. Ma dal momento in cui la scienza e l’esperienza indicano la vaccinazione come misura più sicura, anche questa può essere imposta: come può essere imposto a chi va in moto di non bere troppo alcol». Ma la libertà di sottrarsi ai trattamenti tutelata dall’articolo 32 della Costituzione? «Quella norma contiene due principi. Prima sancisce quello di protezione della salute di tutti; poi prevede la libertà di scelta e di rifiuto della terapia. Ma quando la scelta di non curarsi determina un pericolo per la salute altrui, prevale la tutela di questa. Se sono un eremita sono liberissimo di non curarmi e non vaccinarmi. Se rischio di contagiare familiari, colleghi o vicini di posto in treno, no: lo Stato può vietarmi questo comportamento». E quindi? «Finché c’è un rischio apprezzabile di contagio il datore di lavoro può condizionare la prosecuzione del rapporto alla vaccinazione. E altrettanto possono fare le compagnie aeree, i titolari di ristoranti, o di supermercati». Non serve una legge? «No. Per imporlo in azienda basta l’articolo 2087 del codice civile. Ma anche su ristoratori e trasportatori grava già oggi un obbligo analogo di garantire salute e sicurezza». Non pensa che potrebbe sorgere un contenzioso? «È probabile. Ma in un numero molto limitato di casi». Ma negli altri Paesi Ue il vaccino non è obbligatorio. «Anche negli altri Paesi il vincolo può nascere se le circostanze ne fanno una condizione per la sicurezza di altre persone». (Fonte: Virginia PICCOLILLO, Corriere della Sera)

 SCARPELLI: In rapida successione, due autorevoli giuristi (Guariniello e Ichino) hanno evocato la possibilità di licenziare il lavoratore che dovesse rifiutare il vaccino. Il datore di lavoro, in forza dell’obbligo di sicurezza, potrebbe ed anzi dovrebbe (Ichino) imporre il vaccino, una volta che questo fosse disponibile, pena il licenziamento se il rifiuto mette a rischio la salute di altre persone. Al netto dei titoli roboanti e dell’inevitabile sintesi di un’intervista trovo imprudenti, almeno per come esposte, le tesi dei colleghi. A scanso di ogni equivoco, penso che ogni cittadino, dunque anche ogni lavoratore, debba concorrere allo sforzo collettivo contro la pandemia, tenendo condotte responsabili. Se e quando le autorità pubbliche mi consiglieranno e renderanno disponibile il vaccino lo farò volentieri, come già ho fatto per quello anti-influenzale (di mia iniziativa e a mie spese, vista l’indecente gestione del tema da parte dei responsabili del sistema sanitario lombardo…). Ciò premesso, ad oggi la legge non prevede un obbligo di vaccinazione Covid, né lo impone nei luoghi di lavoro. Se interverrà una normativa in tal senso, la questione dovrà essere rivalutata alla luce della specifica disciplina, ma intanto si deve ragionare nell’attuale quadro giuridico. Quali dunque le regole oggi? L’art. 32 Cost. prevede, come è noto, che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La legge, abbiamo detto, non c’è. Ma per Ichino non è così, perché c’è l’art. 2087 c.c. che prevede l’obbligo del datore di lavoro ad adottare le misure che “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica” sono necessarie a tutelare la salute dei lavoratori. Che l’art. 2087 (al quale Guariniello aggiunge l’art. 279 del T.U. Sicurezza n. 81/2008) soddisfi la riserva costituzionale di legge è tesi a mio avviso infondata perché (lo dicono i costituzionalisti) la legge deve prevedere in maniera specifica il trattamento sanitario obbligatorio. Possiamo probabilmente ritenere che il datore di lavoro sia obbligato ad integrare il sistema di sicurezza procurando anche la possibilità della vaccinazione (ammesso che ciò sia concretamente possibile), ma questa non può essere ritenuta sul piano giuridico un obbligo per il lavoratore. Dunque trarne l’immediata conseguenza del possibile licenziamento, a fronte di un rifiuto, significa diffondere un messaggio errato e allarmistico. In primo luogo, il lavoratore può avere, su indicazione del proprio medico e in relazione alle proprie condizioni di salute, ragioni ostative al vaccino: e per tali intendo non soltanto condizioni per le quali la scienza medica abbia già accertato una controindicazione o un elevato rischio, ma anche uno stato particolare in relazione al quale non sia ancora non valutabile il rischio da vaccinazione, in base alla regola di precauzione. Non possiamo dimenticare che i vaccini anti-Covid stanno forzatamente seguendo percorsi di sperimentazione e autorizzazione accelerati, che possono dunque giustificare interrogativi per particolari condizioni della persona (non ho le competenze per esprimermi sul punto ma, ad esempio, credo sia ancora da indagare la situazione dei soggetti con elevata reattività allergica). Non è inutile ricordare che lo stesso legislatore ha preso in considerazione l’ipotesi dei danni da reazione ai vaccini obbligatori (legge 210/1992), con disposizioni che prevedono una forma di indennizzo previdenziale, chiamando lo Stato a un impegno di solidarietà sociale nei confronti di chi per il bene della collettività ha subito simili danni: ma è appunto previsto per le misure obbligatorie, sulla base di statistiche che indicano una bassa incidenza degli effetti patologici invalidanti (più di recente la Corte costituzionale ha esteso l’indennizzo anche ai casi da vaccini solo consigliati, come quello anti-influenzale). Insomma, il lavoratore può avere in primo luogo una valida giustificazione per non sottoporsi al vaccino. Oppure può essere paura, dubbio, o al limite una (per me non condivisibile) convinzione personale (il caso del “no-vax”). Il vaccino può certamente essere una misura consigliata per ridurre il rischio dei contagi nel luogo di lavoro, ma non è l’unica. L’art. 20 del TU Sicurezza impone anche al lavoratore, responsabilizzandolo, un obbligo di cooperazione all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro: ma neanche tale norma può trasformare una possibilità in un obbligo. Dunque il tema è se il vaccino, pur non obbligatorio, debba considerarsi una misura di sicurezza indispensabile tale da rendere il lavoratore che si opponga inidoneo all’ambiente di lavoro, e perciò licenziabile. Così espressa (e così sembra intenderla la posizione più articolata di Guariniello), la tesi non convince. Sono ormai 10 mesi che, sulla base dei protocolli raggiunti dalle maggiori associazioni sindacali con il sostegno del Governo, la situazione nei luoghi di lavoro è sotto controllo (almeno in quelli che applicano seriamente le misure di sicurezza, che coinvolgono i RLS ed i comitati di attuazione, ecc.). Il vaccino migliorerà tale situazione, ed è fortemente raccomandabile una campagna che sostenga l’adesione convinta dei lavoratori che per primi sono interessati alla salute propria e dei colleghi. Ove il singolo non accetti il vaccino, a maggior ragione se adduca motivazioni relative alla propria salute, il datore di lavoro dovrebbe dimostrare che, in quella determinata situazione e per quelle determinate mansioni, il vaccino di ogni dipendente configura una misura indispensabile per la tutela della salute sua, dei colleghi ed eventualmente del pubblico e degli utenti, e che non vi sono misure alternative adeguate e ragionevolmente sufficienti, come quelle fino ad oggi adottate ed altre progressivamente attuabili (dispositivi di sicurezza, metodi di disinfezione, smart-working, ecc.), le quali consentano di mantenere il dipendente su quelle mansioni. In questo caso, poi, andrebbe valutata la collocabilità del dipendente su altri incarichi con minore rischio di contagio passivo e attivo (ad esempio non a diretto contatto col pubblico), o in forma di lavoro a distanza. Solo alla fine di questo iter si potrebbe forse considerare inidoneo il lavoratore: anche qui, tuttavia, si porrebbe il quesito se si tratta di una inidoneità definitiva o temporanea, che è tema collegato all’andamento e alle caratteristiche della pandemia (essendo evidente che più saremo prossimi alla c.d. immunità di gregge e meno facilmente potrà affermarsi la natura indispensabile della misura vaccinale, se sarà ancora non obbligatoria). In tal caso, il lavoratore potrebbe dunque e legittimamente invocare una misura temporanea di sospensione del rapporto di lavoro, quali le aspettative previste dalla generalità dei contratti collettivi: e il datore dovrebbe a mio parere concederla, in una prospettiva di correttezza e buona fede, salvo che ne dimostri l’incompatibilità organizzativa. Insomma, nella situazione già molto complessa che stiamo vivendo, gettare slogan ad effetto sul licenziamento del lavoratore ‘egoista’ o ‘pauroso’ non mi pare contribuisca a sviluppare un buon dibattito. Ci andrei piano, e utilizzerei queste energie intellettuali per costruire un processo di responsabilizzazione collettiva basata sul consenso, non sulla paura. (Franco Scarpelli ordinario di Diritto del lavoro presso Università degli Studi di Milano-Bicocca, Fonte: Linkedln)
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