Il giudizio negativo espresso in una scheda valutativa non è mobbing…Così ha statuito il Tar Lazio, Sezione I Bis, con la sentenza n. 3587 del 2019. Secondo i giudici del Tar Lazio all’interno del novero delle condotte mobbizzanti, non rientrano atti gestionali e amministrativi negativi per il dipendente, quali la redazione di una scheda valutativa che contiene giudizi peggiorativi rispetto allo stato di servizio precedente. “In punto di diritto, il Collegio rileva come, ai fini della configurabilità del mobbing, il costante orientamento del giudice della legittimità, al quale si è uniformato l’indirizzo uniforme della giurisprudenza amministrativa, richiede che, per assumere giuridica rilevanza, tale fenomeno deve presupporre l’esistenza di plurimi elementi, la cui prova compete al prestatore di lavoro, di natura sia oggettiva che soggettiva e, fra questi, l’emergere di un intento di persecuzione, che non solo deve assistere le singole condotte poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un disegno comune e unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima (Cass Civ., sez. lavoro, 15 febbraio 2016, n. 2920)”. Per i giudici, “Nello specifico, devono ricorrere una pluralità di elementi costitutivi, ovverosia: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi” (T.A.R. Lazio Roma, Sez. I Quater, 4 febbraio 2019, n. 1421). Anche il Consiglio di Stato più volte “ha affermato che, nell’ambito dei rapporti di pubblico impiego e della conseguente responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., il mobbing si sostanzia in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica (ex multis Cons. St., sez. VI, 13 marzo 2018, n. 1589; 28 gennaio 2016, n. 284; 12 marzo 2015, n. 1282). Il ricorrente, con il ricorso al Tar aveva lamentato l’esistenza di una condotta gravemente vessatoria e persecutoria, posta in essere dal Maresciallo Capo, suo superiore gerarchico, dal momento della sua immissione in servizio nella nuova destinazione presso l’-OMISSIS-, richiesta dello stesso ricorrente. Sosteneva parte ricorrente che la condotta gravemente ostile e persecutoria posta in essere dal suo superiore gerarchico si è caratterizzata da un susseguirsi di molteplici comportamenti vessatori e atteggiamenti di carattere ostruzionistico e oppressivo. A causa delle ripetute provocazioni ed umiliazioni ricevute quotidianamente, anche in presenza dei colleghi, il ricorrente ha riscontrato una patologia di depressione e di stress che lo ha costretto ad assentarsi, per lunghi periodi di tempo, dal servizio per motivi di salute e per inabilità temporanea al lavoro (per un periodo di complessivo di 240 giorni), come documentato dalle visite mediche cui il ricorrente si era sottoposto. Il ricorrente ravvisava nella condotta perpetrata in suo danno un’espressa violazione dell’art. 2087 c.c., poiché la condotta del superiore gerarchico non è idonea a garantire l’incolumità fisica del lavoratore e a salvaguardare la propria attività lavorativa, bensì si concretizza in reiterati e sistematici comportamenti ostili, tali da assumere i connotati del cosiddetto mobbing. A parere del ricorrente, risultava certamente evidente il nesso di causalità tra la condotta gravemente persecutoria del Maresciallo suo superiore gerarchico e il pregiudizio alla personalità e all’integrità psico-fisica subito, nonché, altrettanto pacifica sarebbe la volontà dell’intento persecutorio del medesimo superiore gerarchico, consistente in dequalificazione, sottrazione di compiti e responsabilità con assegnazione ad altri dipendenti.