QUANDO ENTRO IN AULA CHIAMATEMI AVVOCATO di Carolina CASTRACANE

Quando entro in aula mi chiamate Avvocato.  Beatrice Venezi è la più giovane professionista a dirigere un’orchestra in Europa e, entrando in scena sul palco del Festival di Sanremo, ha voluto mettere subito i puntini sulle “i”: “Direttrice d’orchestra? No, meglio direttore”, ha precisato rispondendo a una battuta del conduttore. Questa mattina, dopo aver letto la notizia, ho voluto anch’io esprimere una mia opinione sulla questione mediante un post pubblicato su Facebook e Linkedin, con cui ho manifestato la mia preferenza ad essere chiamata Avvocato piuttosto che Avvocata o Avvocatessa. “Quando entro in aula voglio essere chiamata Avvocato perché è quello che sono, né un uomo né una donna. Semplicemente un Avvocato; per questo mi sono fatta il mazzo, per essere capace di difendere i diritti non per declinare un titolo al femminile. Una “A” posticcia, a coprire le pubenda, non serve né a me come donna, né a me come professionista. I diritti delle donne non si difendono con la fraseologia (che al più serve a costruire sul niente carriere politiche da parte di improbabili paladine del genere femminile)”. Questo è quello che ho scritto nel mio post ed è quello che penso da quando, per la prima volta, mi sono sentita chiamare Avvocata. Sarò sincera e forse anche impopolare o controcorrente che dir si voglia, ma quella “A” in fondo al mio titolo mi disturba. Mi disturba perché mi suona quasi come un contentino e un’offesa alla mia intelligenza. Come se non fossi in grado di rendermi conto che dietro al riconoscimento di quella declinazione al femminile, rimangono ancora gli innumerevoli  pregiudizi nei confronti delle donne che ambiscono a svolgere professioni e ad accedere a posizioni apicali. Si guarda alla forma quando quello che dovrebbe interessare è la parità di accesso a certe posizioni e la parità di salario mentre introdurre ulteriori differenziazioni non conduce a questo risultato. Mi disturba perché è come se il rispetto dei diritti delle donne, dipendessero da un nome declinato al maschile o al femminile (e a mio modesto parere la tutela di tali diritti non passa nemmeno dalle “quote rosa”). Tornando alla vicenda Sanremese, il direttore d’orchestra Venezi non è comunque nuovo a queste prese di posizione. Le cronache ricordano lo “scontro” sui social con una collega che si presentava con lo smoking per dirigere l’orchestra, mentre la musicista italiana ha sempre scelto di indossare un abbigliamento che non nasconde la sua femminilità. Ecco in questo vedo tutta la libertà di una donna. Come ho risposto a chi ha criticato il mio post, nonché la precisazione del Direttore Venezi, ritengo che la vera libertà di noi donne, da dover difendere a tutti i costi, sia quella di non essere giudicate per il nostro genere, per la nostra età o per il nostro modo di vestire ma esclusivamente per la nostra professionalità e preparazione. Poi possiamo discutere su come sia corretto, dal punto di vista della lingua italiana, appellare un Avvocato di sesso femminile e un direttore di orchestra. Così come ha fatto la Deputata Laura Boldrini, in un’intervista all’Adnkronos, la quale ha replicato così a Beatrice Venezi: “Direttrice è bellissimo, rifletta sui sacrifici delle donne”. “Più che una scelta individuale della direttrice d’orchestra Venezi, è la scelta grammaticale a prevalere e quella italiana ci dice che esiste un genere femminile e un genere maschile. A seconda di chi riveste il ruolo si fa la declinazione. Chi rifiuta questo lo fa per motivi culturali”. E a chi nei commenti sotto il mio post ha precisato che la “A” di avvocata è posticcia proprio perché l’effettiva presenza femminile nella giustizia è storia recentissima, vorrei ricordare che il grande traguardo è proprio questo. Aver raggiunto la parità numerica tra donne e uomini avvocato. Non intendo snobbare concetti di “femminismo” né tantomeno non rinnego tali concetti per dimenticarmi delle lotte di chi ha permesso a noi donne di emergere da situazioni di inferiorità. Ritengo solo che la rivendicazione del maschile, spesso da parte di donne che si sono battute strenuamente per la parità dei generi, non sia cadere nel tranello di una cultura costruita dall’uomo e sull’uomo, in cui i titoli al maschile sembrano avere un’autorevolezza maggiore rispetto alla declinazione al femminile, proprio poiché introdurre distinzioni vuol dire attribuire ancora una volta una forte connotazione alle professioni. Mala mia professione non ha genere. Per questo chiamatemi semplicemente Avvocato. (Carolina CASTRACANE, avvocato del Foro di Firenze)

 

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