MILITARE, TRASFERIMENTO NEGATO: NON E’ MOBBING

MOBBING in divisa. Già in altri miei scritti ho definito la parola “il mobbing non esiste” nelle FF.AA. simile a quella che negli anni 70-80 nelle aule di tribunale i giudici sentenziavano “la mafia non esiste”. Non riuscivano a trovare materiale probatorio nei processi per affermare l’esistenza mafiosa. Con il tempo abbiamo scoperto che alcuni di questi giudici erano (e sono) al soldo di ‘ndrangheta, camorra e mafia, altri in buona fede non avevano un quadro globale ed erano un passo indietro rispetto alla criminalità organizzata. L’ennesima sentenza dei giorni nostri che rigetta il ricorso di un finanziere che si vede mobbizzato è la dimostrazione pratica che c’è ancora molto da lavorare, studiare, capire perchè il trasferimento di un finanziere non è la stessa cosa che quello di un maestro, infermiere, impiegato di banca. Un finanziere, carabiniere, poliziotto ha una scala gerarchica esasperata, un rapporto diretto sul territorio, una delicatezza nel lavoro che va tenuta in conto debitamente, va utilizzata la massima attenzione per dare serenità ed ogni risposta tesa ad evitare il ricorso del dipendente alla giustizia amministrativa. Quando ciò avviene la gravità è ben più preoccupante di quanto appare nelle carte probatorie. L’altra faccia delle specificità, operativa, “ordini” di natura superiore alle esigenze del dipendente sono il vuoto e il senso dell’abbandono, l’angoscia e la frustrazione di essere soli, senza neanche un giudice capace di capire la delicatezza. I suicidi sono l’altra faccia di una strada senza via d’uscita. (Ferdinando Chinè)

MILITARE, TRASFERIMENTO NEGATO: NON E’ MOBBING!

Il provvedimento di trasferimento del militare è da qualificarsi come ordine, conseguentemente l’interesse personale del militare a essere trasferito non assume rilevanza dirimente a titolo di mobbing.   “I provvedimenti sui trasferimenti dei militari sono qualificabili come “ordini”, rispetto ai quali l’interesse del militare a prestare servizio in una determinata sede assume, di norma, una rilevanza di mero fatto, e sono strettamente connessi alle esigenze organizzative dell’Amministrazione ed alla disciplina speciale che connota il rapporto di servizio del relativo personale (fattispecie relativa ad un finanziare che si era vista respinta la sua richiesta risarcitoria a titolo di mobbing perché non vi era alcuna prova di un trattamento vessatorio da parte dell’Amministrazione, dato che i rifiuti contestati rientravano per lo più nelle ordinarie esigenze di servizio)”, in tal senso il TAR Lazio, sentenza n. 11343 del 3 novembre 2020. La vicenda trae origine da un contenzioso instaurato da un Militare della Guardia di Finanza cui veniva respinta l’istanza risarcitoria per mobbing per mancata prova del trattamento vessatorio lamentato da parte del datore di lavoro.

Nello specifico, l’Amministrazione pubblica – datrice di lavoro- respingeva, più volte, le richieste di trasferimento del militare presso una Tenenza più vicina alla sua residenza a causa di “carenza di requisiti o esigenze di servizio”.

Tuttavia, al Finanziere veniva parzialmente riconosciuta la causa di servizio per alcune patologie di cui era affetto e connesse allo svolgimento delle sue mansioni. Il Militare, ritenendo che i reiterati rifiuti di trasferimento da parte del Comando Generale lo avessero costretto ad un eccessivo pendolarismo, e che denotassero un comportamento persecutorio e vessatorio, stante anche il fatto che i provvedimenti negativi venivano assunti con formule volutamente ermetiche, generali e astratte sulle esigenze di servizio, si rivolgeva al Tribunale Amministrativo. Il Giudice respinge la domanda di riconoscimento di mobbing e relativa richiesta di risarcimento del danno. Preliminarmente viene evidenziato che le censure del Militare non sono idonee a dimostrare che veniva posto in essere un comportamento persecutorio, né discriminatorio, avendo il Comando Generale agito correttamente.

Il Tribunale ribadisce che per mobbing è da intendersi una condotta datoriale, o del superiore, che si estrinseca in comportamenti complessi e protratti nel tempo.

Tale condotta, che deve sempre e comunque palesarsi con una serie prolungata di atti, o di comportamenti ostili, esuberanti l’ordinaria gestione del rapporto di lavoro, deve essere intenzionale e finalizzata alla persecuzione/vessazione del lavoratore, a tale stregua che ne consegua un effetto lesivo alla salute dello stesso. Ai fini della configurazione del mobbing devono sussistere:

  • elemento oggettivo, ovvero azione/atto offensiva/o del datore di lavoro sistematica e frequente, avente le caratteristiche oggettive di persecuzione/discriminazione
  • elemento soggettivo, ovvero atteggiamento persecutorio del datore di lavoro

Una volta accertata la configurazione, il risarcimento dei relativi danni patrimoniali e non patrimoniali può essere concesso. Al riguardo, sia il Giudice di legittimità che il Consiglio di Stato (Cass. 12364 del 2020 e Cons. St. 8104 del 2019, 7319 del 2019 e 5789 del 2018), hanno statuito che “la qualificazione di mobbing è possibile laddove il rapporto di lavoro non rappresenti un mero presupposto estrinseco ed occasionale della tutela invocata, posto che essa attiene a posizioni giuridiche soggettive che si assumono lese direttamente da comportamenti che rappresentano l’esercizio di tipici poteri datoriali.” In punto di onere della prova, la giurisprudenza ha più volte affermato che il lavoratore deve dimostrare: a) la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo sistematico e prolungato, secondo un disegno vessatorio; b) l’evento lesivo della salute; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica; d) la sussistenza dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. E’ il lavoratore, dunque, a dover provare il mobbing e la responsabilità del datore anche attraverso presunzioni desumibili dalle caratteristiche dei comportamenti tenuti dal datore di lavoro. In altri termini, deve dimostrare l’intenzione di nuocere e la condotta persecutoria del datore di lavoro finalizzata a porre in essere un preciso disegno di vessazione ed emarginazione del lavoratore. Il Militare non ha fornito tale prova, conseguentemente le sue doglianze vengono respinte. Oltretutto, precisa il Tribunale, è emerso invero un comportamento collaborativo da parte del Comando Generale che concedeva al Militare numerosi permessi, anche di lunga durata, per accudire la madre malata e i giudizi resi sul servizio dello stesso risultavano sempre positivi e migliorati nel tempo. Inoltre, il trasferimento su domanda rientra tra i casi eccezionali e richiede una determinata anzianità di servizio. Difatti, maturata tale anzianità, il Militare veniva trasferito nella sua Regione. La decisione qui a commento è da segnalarsi per l’impeccabile disamina sugli elementi costitutivi del mobbing e relativo risarcimento del danno. ( Avv. Emanuela Foligno – responsabilecivile.it)

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