CORONAVIRUS: IO NON CI STO PIU’ di Anna VAGLI

Credetemi, avrei voluto farne a meno e spendere la mia rubrica settimanale parlando di delitti, che certo non si placano di fronte al Covid-19. Tuttavia, in questi giorni ho letto e sentito troppo, quindi, per portare avanti quanto sostenuto nel mio precedente numero, questa volta ho deciso di dire la mia senza mezzi termini. Come sempre. Fino a venerdì 21 febbraio le nostre vite proseguivano più o meno regolarmente. Certo, si parlava di coronavirus, ma comunque forti dell’isolamento da parte delle ricercatrici italiane e confortati dalle notizie che provenivano dallo Spallanzani. Personalmente, non avevo smesso di prendere le precauzioni del caso, dal momento che in dieci giorni ero salita all’incirca su otto treni. Reputavo comunque la situazione nella norma, in fondo sembrava che il panico iniziale fosse rientrato nei ranghi e che l’ombra del virus fosse già archiviata. Di rientro da Milano, in ascolto del tg delle 20:00, sono però – come la maggior parte di noi – sobbalzata nella (nuova) e drammatica realtà. Un ragazzo di trentotto anni ricoverato in gravi condizioni a Codogno. Poi, solo il delirio. Credo che le ventiquattro ore successive siano state le più lunghe per tutti, anche per le nostre istituzioni. Come un effetto domino hanno iniziato esponenzialmente ad aumentare i contagi e con essi, purtroppo, ad arrivare anche i primi decessi. Il Governo, così come i Presidenti delle regioni maggiormente colpite, hanno adottato e chiesto misure restrittive per cercare di contenere un fenomeno che ormai aveva assunto i connotati di una vera e propria epidemia. L’obiettivo primario era diventato quello di circoscrivere i focolai e con essi il diffondersi del contagio. Sennonché, contestualmente, i massimi esperti hanno iniziato a darsi battaglia paventando tesi che corrono su rette parallele. Panico totale. Da quello che piano piano è emerso, sembrava (e sembra) che nessuno abbia mai conosciuto le principali condizioni igenico-sanitarie, che nessuno si sia mai lavato le mani dopo esser stato in un luogo affollato ma, al contrario, sia stato (e continui ad essere) vittima di un’ingiustificata psicosi indotta e generalizzata. Intanto, però, il bollettino da contagio pare non riuscire ad arrestarsi né a mantenersi aggiornato. Non è tutto. Difatti, c’è chi, allo stato e addirittura dopo il decreto legge firmato dal premier Conte, continua a banalizzare sostenendo che si tratta di una semplice influenza. Prendetevi una tisana e state al caldo. Domani starete meglio. L’ultima volta ci siamo salutati invocando il senso civico e di responsabilità che ciascuno deve possedere perché, come detto, la salute di tutta la popolazione passa attraverso ciascuno di noi. Anche su questo punto direi che non ci siamo. Nonostante gli appelli dei vertici di rispettare la quarantena, di restare nelle zone “rosse”, di denunciare alle Asl territorialmente competenti eventuali contatti o viaggi nei territori bollati come a rischio, si sono registrate nella settimana ormai trascorsa vere e proprie fughe da nord verso sud. Studenti fuorisede, lavoratori e turisti. In barba ai controlli e alle conseguenze penalmente previste in caso di violazione delle misure disposte. L’ultima che si legge questa mattina è l’organizzazione di un rave party intorno alla zona rossa a cui avrebbero partecipato ben 300 persone. Ah, il senso civico di appartenenza! Per quanto detto, il messaggio che mi sono proposta di far passare a voi che mi leggete è chiaro: allarme non significa allarmismo. A questo punto non rileva quanto il virus sia o meno letale ma deve essere chiaro che tutte le persone che si ammalano necessitano di ospedalizzazione e di consistenti cure per guarire. Se non rispettiamo le regole nessun sistema sanitario al mondo potrà fronteggiare all’emergenza. Sfidare il rischio e negare l’epidemia rende sicuramente vano ogni sforzo di contenimento. Si è mai vista un’influenza stravolgere l’attività di interi reparti e mettere in crisi le rianimazioni di regioni tra le più efficienti d’Italia? Altro aspetto che mi sento fortemente di criticare è l’approccio nei confronti delle vittime ormai trattate come numeri, come persone che “tanto sarebbero morte ugualmente perché affette da pregresse e concomitanti patologie”, “avevano superato gli ottant’anni”, “negli anni passati non si è mai prestata attenzione ai decessi per influenza, quest’anno che cosa è cambiato?”. Io non ci sto più, perché parlare senza essere coinvolti in prima persona è facile. Credo che come me la pensino in tanti. In aggiunta, non è possibile neppure avere la certezza matematica che a prestare il fianco siano esclusivamente le persone rientranti in una certa fascia d’età. “Paziente 1” docet. Questo secondo me è l’aspetto più triste. Non esistono cittadini di serie A e cittadini di serie B. Non esistono malati di prima fascia e malati di seconda fascia. Leggo, e correggetemi se sbaglio, un atteggiamento darwiniano nei confronti dell’epidemia. La triste realtà è che ormai gli ospedali sono al collasso e avvertono una necessità crescente di richiamare a lavoro medici in pensione, assumere nuovo personale e ripristinare vecchi alloggi militari. D’un tratto ci troviamo ad essere discriminati, privati della possibilità di volare all’estero, respinti alle frontiere e persino nei resort. Nuovamente catapultati nel vissuto dei nostri bisnonni, quando speranzosi di trovare l’America, venivano respinti ad Ellis Island. Prima di chiudere, un’altra considerazione figlia della troppa superficialità, e a mio avviso, a tratti anche di ignoranza, della protesta sorta per la decisione di rinviare anche alcune partite di serie A. Io per prima sono un’appassionata di calcio ma credo che in situazioni come queste sia doveroso pensare principalmente alla salute dell’intera popolazione. Non tutti però sono dello stesso avviso e questo è testimoniato dal fatto che nelle ultime ore sono emerse teorie complottiste sui presunti retroscena delle misure disposte. Come ho già sottolineato allarme non è sinonimo di allarmismo. Prevenzione non è sinonimo di psicosi. Preoccupazione per un problema concreto e tangibile non significa paventare una catastrofe. Adottare le opportune cautele, al contrario, è sinonimo di intelligenza e civiltà.

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