USO DISINVOLTO DEI SOCIAL di Angelo RUBERTO

 

Il tribunale di Firenze, con una sentenza dello scorso ottobre,  torna ad occuparsi dell’uso dei social distinguendo le pubblicazioni sui profili aperti, quindi accessibili a tutti da quelle sui profili chiusi o, all’interno di chat telefoniche con accesso riservato. Per prima cosa bisogna chiarire , che l’ uso disinvolto dei social media, può avere conseguenze spiacevoli. La pubblicazione di immagini o scritti diffamatori in un sito web o sui social network (Facebook, Twitter, Istagram) o su una chat di gruppo whatsapp, o la creazione di un sito web a contenuto diffamatorio integra la fattispecie della diffamazione commessacon qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, di cui all’articolo 595, comma 3 codice penale. REATO DI DIFFAMAZIONE: Scatta quando ricorrono le seguenti circostanze: assenza dell’offeso (se è presente sussisterà il reato di ingiuria); offesa all’altrui reputazione; la persona diffamata non deve essere necessariamente indicata nominativamente ma tuttavia deve essere individuabile agevolmente e con certezza. In sostanza è sufficiente che l’offeso possa essere individuato per esclusione, o in via deduttiva; comunicazione a più persone. Non sussiste quindi il reato di diffamazione nella lesione della reputazione comunicata ad una persona solamente, pur potendo essere ciò sufficiente per richiedere il risarcimento del danno in via civile. Con riguardo alla diffamazione a mezzo Internet la sussistenza della comunicazione a più persone si presume nel momento stesso in cui il messaggio offensivo viene inserito su un sito Internet che, per sua natura, è destinato ad essere visitato da un numero indeterminato di persone in breve tempo. Inoltre c’è differenza se la diffamazione avviene su un social network aperto o all’interno di chat privata. La diffamazione del proprio capo può comportare anche il licenziamento se ci sono gli elementi di gravità richiesti dalla legge. Infatti, Insultare il proprio capo o l’azienda su un social network aperto a tutti è più grave, dal punto di vista disciplinare, rispetto a una critica o a un insulto che avviene in una chat chiusa. Sembra una distinzione che si sta facendo largo nella giurisprudenza, sempre più spesso chiamata a valutare la rilevanza disciplinare dell’uso – a volte disinvolto – dei social media e a decidere sulla legittimità di licenziamenti inflitti per messaggi considerati lesivi delle aziende. La giurisprudenza recente, dunque, sta distinguendo i casi (Cfr. Tribunale di Firenze sentenza del 16 ottobre 2019) in base alla platea che riceve eventuali messaggi offensivi: la rilevanza penale dei messaggi muta radicalmente quando sono pubblicati su profili di social network aperti a tutti, o su account o all’interno di chat telefoniche l con accesso riservato solo ai contatto o ai partecipanti della chat. Nel primo caso, l’eventuale contenuto offensivo del messaggio rileva sul piano disciplinare e, quindi, può essere contestato al lavoratore e usato come motivo di licenziamento (se ci sono gli elementi di gravità richiesti dalla legge). Nel secondo caso, la giurisprudenza equipara i messaggi inviati alla chat chiusa o pubblicati sul profilo ad accesso limitato alle forme di corrispondenza privata che, come tali, sono oggetto di tutela costituzionalmente garantita e,  non possono, quindi, essere usate per licenziare o sanzionare un dipendente.

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Redazione

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