DISASTRO INNOMINATO O DISASTRO AMBIENTALE di Giuliana FAVARA

 

 

Il nostro ordinamento penale, prima dell’introduzione dell’art. 452 quater c.p. ad opera della l. n. 68/2015, non conosceva una specifica fattispecie legale di disastro ambientale. Per sopperire a tale mancanza, la giurisprudenza aveva posto il delitto di disastro innominato, di cui all’art. 434, comma 2, c.p., a presidio dei fatti più gravi di inquinamento ambientale non rientranti nell’elenco dei disastri tipizzati. Al riguardo, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 327 del 2008, aveva enucleato una definizione di disastro innominato, qualificandolo come un vero e proprio evento distruttivo di proporzioni straordinarie volto a produrre effetti dannosi gravi e costituente un pericolo per la vita e l’incolumità fisica di un numero indeterminato di persone, bene giuridico tutelato dalla norma1. Applicando i criteri interpretativi delineati dalla Consulta, l’organo giudicante, nel noto caso “Eternit”, ha qualificato come disastro innominato la dispersione nell’aria di massicce quantità di fibre di amianto. Tale qualificazione è stata accolta dalla Corte di Cassazione che, con la pronuncia n. 7941 del 2015, è intervenuta in merito alla natura del reato, alla sua consumazione e alla decorrenza del termine prescrizionale2. Si tratta di un reato comune, essendo rivolta l’incriminazione al quisquis. Tuttavia, mentre nella forma attiva è totalmente indeterminato il soggetto attivo, nella forma omissiva il soggetto agente coincide con il titolare della posizione di garanzia chiamato a rispondere del pericolo di evento disastroso. Il reato può essere posto in essere sia da un solo individuo che da più soggetti che concorrono nella realizzazione dell’evento delittuoso. Il concorso può essere ravvisato quando il soggetto ha materialmente partecipato all’esecuzione materiale del fatto diretto a cagionare il disastro ovvero quando ha fornito un qualsiasi apporto causale concreto all’attività criminosa posta in essere dall’autore materiale, così da consentirne e agevolarne l’azione, assicurando il proprio contributo materiale o anche solo morale alla realizzazione dell’illecito. L’elemento costitutivo dell’incriminazione consiste in qualsiasi fatto diretto a cagionare il disastro. Si tratta, pertanto, di un reato a forma libera e di pericolo concreto. La Suprema Corte ha accolto l’orientamento dottrinale maggioritario in merito alla qualificazione giuridica dell’art. 434, comma 2, c.p. quale circostanza aggravante ad efficacia speciale e non reato autonomo poiché la norma è correlata ad elementi che non inficiano la struttura della condotta di cui all’art. 434, comma 1, c.p., ma determinano una maggiore valenza offensiva, consistente nella materiale realizzazione dell’evento già incluso come mera finalizzazione della condotta nel primo comma. Si tratta, infatti, di una fattispecie di attentato, contrassegnata dal pericolo di disastro innominato, aggravata dalla verificazione dell’evento. E’ un delitto a consumazione anticipata, in quanto la realizzazione del mero pericolo concreto del disastro è idonea a consumare il reato mentre il verificarsi dell’evento realizza la fattispecie aggravata. Quanto all’elemento psicologico, il dolo è intenzionale rispetto all’evento di disastro ed eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità poiché gli imputati hanno agito nella piena e perfetta consapevolezza degli enormi danni che sarebbero stati arrecati all’ambiente e all’incolumità pubblica in conseguenza dei propri comportamenti criminosi. In merito alla prescrizione, la Suprema Corte statuisce che la Corte d’Appello di Torino ha confuso la permanenza del reato con la permanenza degli effetti del reato. Ed, infatti, la consumazione del delitto di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri d’amianto, coincidente con la data di fallimento delle società produttrici. Il motivo è legato al fatto che non si ha il protrarsi dell’offesa dovuta alla persistente condotta del soggetto agente ma il protrarsi delle sole conseguenze dannose del reato. Pertanto, il dies a quo per la decorrenza del termine prescrizionale deve coincidere con la data di fallimento degli stabilimenti. La struttura del reato, delineata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, in particolare, nel caso Eternit, in merito al delitto di disastro innominato trova applicazione anche in relazione alla nuova fattispecie di disastro ambientale. La novità, rispetto al disastro innominato, consiste nel fatto che la nuova norma contiene una definizione normativa del concetto di disastro ambientale, consistente nell’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema o nella messa in pericolo dell’incolumità pubblica. Si tratta di un reato di evento a forma libera poiché la fattispecie prevede tre tipologie di eventi diversi e alternativi che possono essere cagionati con qualsiasi condotta posta in essere abusivamente. In merito alla prima tipologia di evento tipizzato, la dottrina rileva che la nuova legge non contiene una definizione del concetto di ecosistema e che la terminologia adoperata risulta generica e indeterminata. Inoltre, la possibilità di stabilire che vi sia un’alterazione dell’equilibrio implica una comparazione concreta dello stato di un ecosistema prima e dopo una certa contaminazione, operazione non sempre possibile. L’alterazione, in aggiunta, deve essere irreversibile, considerata tale anche nel caso in cui occorra, per una sua eventuale reversibilità, il decorso di un ciclo temporale talmente ampio, in natura, da non poter essere rapportabile alle categorie dell’agire umano. La seconda tipologia di evento consiste, invece, in un’alterazione dell’equilibrio difficilmente ripristinabile. La terza, infine, in un’offesa alla pubblica incolumità anche in assenza di un qualsivoglia danno ambientale. Il legislatore ha previsto una circostanza aggravante ad effetto speciale quando l’evento si verifica “in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette.” Quanto alla condotta, il termine abusivamente implica che, affinché il delitto possa dirsi realizzato, il fatto, oltre che tipico, deve essere anche antigiuridico, nel senso che deve porsi in contraddizione con l’intero ordinamento giuridico, ossia non deve essere reso lecito da una norma dell’ordinamento che lo imponga. In merito all’applicazione della nuova norma, il legislatore ha anteposto alla descrizione della fattispecie una clausola di riserva «fuori dai casi previsti dall’art. 434». Secondo una parte della dottrina, la clausola costituirebbe un’applicazione del principio di sussidiarietà, volta a prevenire un concorso apparente di norme tra i due delitti. Ne consegue che, dato che il disastro ambientale è sussidiario rispetto al disastro innominato, la punibilità per il disastro ambientale viene meno. La dottrina maggioritaria sostiene, invece, che la clausola si applica quando ricorrono gli elementi costitutivi del disastro innominato ex art. 434 c.p. e non ricorrono quelli del disastro ambientale ex art. 452 quater c.p. La nuova legge prevede, inoltre, un aggravamento di pena per i reati associativi connessi ai delitti ambientali e per i reati che sono commessi per realizzarli. Stabilisce, invece, una diminuzione di pena per coloro che collaborano con le autorità ed evitano che il delitto sia portato a conseguenze ulteriori ovvero si adoperino per il ripristino dello stato dei luoghi o per la bonifica prima dell’apertura del dibattimento. Infine, la normativa impone al giudice di ordinare la confisca dei beni prodotto o profitto del reato o che servirono a commetterlo, salvo che appartengano a terzi estranei al reato, in caso di condanna o patteggiamento. Se la confisca non è possibile, il giudice deve ordinare la confisca per equivalente. Al riguardo, la Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 58 del 2018 inerente al caso ILVA, afferma che deve essere considerata lecita la continuazione dell’attività produttiva di un’azienda qualora la stessa sia sottoposta a sequestro o i beni primari siano sottoposti a confisca alla sola condizione che l’azienda predisponga un progetto per la messa in sicurezza delle aree interessate e per la tutela dell’incolumità pubblica, nel rispetto dei principi fondamentali in gioco3. Infine, in merito alla prescrizione, vi è una giurisprudenza non conforme alle conclusioni date dalla Suprema Corte nel caso Eternit. La Corte d’Appello dell’Aquila, con una pronuncia del 17 febbraio 2017, afferma che si tratta di una condotta perdurante con conseguenze dannose che si protraggono nel tempo e pertanto il dies a quo non può coincidere con l’ultima condotta posta in essere dal soggetto agente4. In conclusione, la nuova fattispecie non solo non risolve nessuno dei problemi che derivavano dall’applicazione dell’art. 434 c.p., primo fra tutti il problema dell’individuazione del dies a quo per il calcolo della prescrizione, ma addirittura ne aggiunge di nuovi, quali l’insanabile imprecisione delle tre ipotesi di disastro contemplate dall’art. 452 quater c.p. e l’assoluta irragionevolezza dei rapporti fra il nuovo delitto e il disastro innominato, per come regolati dalla clausola di riserva. (Fonte, Salvis Juribus)

NOTE: 1. Corte Cost., 1 agosto 2008, n. 327; 2 Cass. Pen., Sez. I, 23 febbraio 2015, n. 7941;

3 Corte Cost., 23 marzo 2018, n. 58; 4 Corte d’Appello dell’Aquila, 17 febbraio 2017, Montedison.

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