LA DRAMMATICA SITUAZIONE DELLE CARCERI IN ITALIA di Anna PALERMO

L’Associazione Antigone lancia un Sos.  CI TROVIAMO DINANZI AD UN VERO E PROPRIO ALLARME SOCIALE?

Dall’inizio dell’anno ben 59 vite spezzate dietro le sbarre, circa 1.280 suicidi dal 2000 ad oggi. Le carceri italiane sono le più sovraffollate dell’Unione Europea, questo è quanto segnalato sul rapporto del Consiglio d’Europa “Space”(StatistiquesPénalesAnnuellesduConseil de l’Europe) che fotografa annualmente la realtà degli Istituti Penitenziari negli Stati membri del Consiglio d’Europa, il rapporto ha evidenziato come la pandemia da Covid-19 ha apportato un notevole contributo per quanto concerne la riduzione della popolazione carceraria in Europa (nel periodo che va da gennaio 2020 a gennaio 2021). Tuttavia, questa “parziale” diminuzione della popolazione carceraria ha riguardato – esclusivamente – il suddetto periodo, adesso, il problema del sovraffollamento si è ripresentato nuovamente e con problemi ben più gravi rispetto al passato, se si considera che la maggior parte dei detenuti sono ancora in attesa di un giudizio definitivo (infatti, su 53.329 detenuti 16.118 sono ancora in attesa di una sentenza definitiva) oltre al fatto che il resto della popolazione carceraria è in gran parte costituita da stranieri, tossicodipendenti e persone con disturbi mentali. L’Italia, dunque, messa a confronto con i soli Paesi membri dell’Unione Europea risulta avere le carceri più sovraffollate e non solo, come detto pocanzi messa a confronto con tutti gli altri Stati dell’UE risulta ai primi posti con il più alto numero di detenuti in attesa di giudizio. In questo contesto, è inevitabile quindi, l’aumento di malesseri e suicidi tra i detenuti, una situazione fomentata – indubbiamente – dalla pandemia e dai ritardi della c.d. “macchina della giustizia”, per questo motivo, diventa cruciale l’inserimento di psicologi in maniera stabile e strutturale all’interno delle strutture carcerarie. In tale ambito, la messa a punto di un sistema di prevenzione e di sostegno per la popolazione consta nell’individuare ed aiutare i reclusi con patologie psichiatriche, o tendenze suicide, attraverso apposite strutture di sostegno (le quali, il più delle volte, sono assenti). A tal riguardo, il presidente dell’Associazione “Antigone”, Patrizio Gonnella (che dal 1991 si occupa di giustizia penale, carceri, diritti umani e prevenzione della tortura) ha dichiarato: «In un momento di sconforto, sentire una voce familiare può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario. I 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario», e ancora, ha aggiunto «proprio in questo mese così drammatico la nostra Associazione ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita>>. Sappiamo bene che il diritto all’affettività, è un tema fondamentale per preservare la vita delle persone recluse. Com’è noto, in seguito alle rivolte verificatesi nel mese di marzo 2020 (dovute al blocco dei colloqui e dei permessi fino al 31 maggio a causa dell’emergenza sanitaria) il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria fece arrivare negli Istituti Penitenziari oltre 1.000 telefoni e tablet, permettendo così ai detenuti di videochiamare i familiari anche oltre i minuti settimanali consentiti. A tal proposito, l’Associazione Antigone, ha chiesto l’adozione di misure simili al fine di prevenire ulteriori suicidi. Orbene, quanto finora esposto, raffigura in toto la tragica situazione delle carceri italiane che, soprattutto dopo la pandemia è di gran lunga peggiorata, difatti, quasi ogni giorno si registra un nuovo caso di suicidio o, tentato suicidio. L’ultimo riguarda un 30enne di Cerignola che ha deciso di impiccarsi nella Casa Circondariale di Foggia (carcere in continua emergenza) nel giorno del suo compleanno, esattamente come un uomo italiano di 52 anni che ha deciso di farla finita all’interno del reparto di osservazione psichiatrica del carcere di Piacenza, l’uomo in questione era ancora in attesa della decisione da parte del Magistrato di Sorveglianza e delle autorità sanitarie. Sotto questo aspetto, è d’obbligo mettere in evidenza la triste vicenda della giovane Donatela Hodo, una donna di soli 27 anni, detenuta nella casa circondariale di Montorio (Verona), nel caso di specie, si è trattato di una donna con gravi problemi di dipendenza che stava contando una pena per alcuni reati di lieve entità (furti). Purtroppo, la giovane donna non ha retto a quella lunga attesa e, in un momento di poca lucidità (la notte tra l’1 e il 2 agosto) ha deciso di farla finita suicidandosi di notte, inalando il gas dal fornelletto della sua cella, anche lei, come l’uomo di 52 anni sopra menzionato, era in attesa che venisse predisposta una misura alternativa al carcere (unitamente ad un programma terapeutico) ma entrambi non hanno retto ai tempi lunghi della giustizia. Nel caso de quo si è trattato del42esimo suicidio dall’inizio dell’anno, Donatela, una ragazza fin troppo fragile che, certamente, aveva bisogno di aiuto, di cure mirate, di un supporto psicologico più congruo (spesso del tutto assente nelle carceri italiane). Il Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Verona, il Dott. Vincenzo Semeraro, che ha seguito il caso di Donatela fin dall’inizio, a seguito del decesso della 27enne, in una lettera aperta, letta durante i funerali, si è autoaccusato chiedendo esplicitamente scusa al padre della giovane, ribadendo che «Ogni volta che una persona detenuta si toglie la vita significa che tutto il sistema ha fallito. Nel caso di Donatella, io ero parte del sistema visto che seguivo il suo caso da sei anni. Quindi, come il sistema, anche il sottoscritto ha fallito». A questo punto, è inevitabile dire che, il dramma dei tempi lunghi della giustizia in Italia ha colpito ancora e perdi più, la grave situazione in cui versano le carceri italiane dovrebbe imporre un’inversione di marcia da parte del vertice politico e amministrativo del Ministero della Giustizia e più in generale del Governo. È necessario quindi, un “ripensamento” organico del carcere, prendendo in considerazione un maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione e, principalmente, l’adozione di procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (ad es. il braccialetto elettronico). Il carcere, quindi, andrebbe visto solo ed esclusivamente come “extrema ratio”, posto che, la funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.), sancisce al 3 co. che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, il trattamento rieducativo, inoltre, deve essere individualizzato (così prescrive l’art. 13 O.P.), improntato sui bisogni e sulle necessità della personalità del detenuto, affinché tutto ciò sia possibile il carcere deve essere visto però come parte integrante della società e non come un luogo autonomo, isolato e meramente punitivo, la natura “umanitaria” del trattamento e la finalità rieducativa della pena devono muoversi quindi, all’interno di un contesto unitario, assolutamente non dissociabile.

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