DELITTI E PENE NELLA DIVINA COMMEDIA di Augusto CONTE

Dante Alighieri fondò un’opera, monumento di perfetta armonia architettonica, di squisita figurazione pittorica e di scultorea rappresentazione di fatti, idee, sentimenti, nella lingua di cui fu creatore che contiene filosofia, psicologia, etica, politica, scienze naturali e biologiche, astronomia, geografia, e quindi anche diritto (in particolare diritto penale), offrendo materia di studio e meditazione al criminalista. Nei versi su Minosse (…esamina le colpe nella entrata, giudica e manda secondo che s’avvinghia…) sono scolpiti la condanna e l’esecuzione penale: chiama a sé con orribile cipiglio le anime, le interroga, le ascolta con la confessione, esamina le colpe, stabilisce la pena e il luogo di espiazione (pene simboliche nell’inferno, antitetiche nel purgatorio; nel Purgatorio i colpevoli sono contenti di soffrire, sospirano il fine pena che è sentita come espiazione e purificazione dell’anima, si ispirano alle virtù, non si danno pace se non quando l’anima venga purificata e redenta; nell’Inferno diversa è la condizione, più che materiale ed esterna, è spirituale e interiore: nell’Inferno si ripropongono le perversioni criminali che i peccatori ebbero in vita; la pena è vendetta, e non espiazione, non si contrappone al delitto, ma lo richiama simbolicamente, come delitto permanente; i peccatori non mostrano pentimento, non pregano, bestemmiano Dio; non esiste espiazione morale e la vera pena si annida in loro stessi nella rappresentazione e perpetrazione delle passioni terrene). I delitti minori sono puniti nel basso Inferno; i maggiori nei cerchi superiori; nel Puragatorio sono destinati i peccatori i cui peccati furono determinati da giusta causa o a cui seguì il pentimento (i lussuriosi si trovano in tutti e tre gli ambiti secondo la maggiore o minore gravità): classificazione importante è quella che si desume dall’elemento psicologico che determina la maggiore o minore gravità, per cui sono individuati peccati di incontinenza (meno gravi, frutto di eccessivo amore di sé: superbi, invidiosi, iracondi, accidiosi, avari, golosi) e peccati di malizia: questi operano contro il diritto, che costituisce norma regolatrice di rapporti esterni tra le persone, nei rapporti sociali, e non solo nella interiorità, perseguendo il fine criminoso con la forza (violenza sulle persone, anche sulla propria, come i suicidi, omicidi di sé stessi) o con la frode (anche contro le proprie sostanze, come i prodighi): fraudolente è chi inganna (adulatori, seduttori, indovini, falsari, ruffiani) e chi tradisce (la patria, l’umanità, come Bruto e Cassio, e la religione, come Giuda). La colpa, fondamento della imputabilità e della pena risiede nell’attuare il male, mentre all’uomo viene concesso il libero (in quanto guidato dalla ragione, può spogliarsi dagli impulsi e tendere al bene) arbitrio (è il giudizio della volontà che si determina verso uno scopo e valutazione dei mezzi) e il libero volere (Voi che vivete, ogni cagion recate Pur suso al cielo, sì come se tutto Muovesse seco di necessitate. Se così fosse, in voi fora distrutto Libero arbitrio, e non fora giustizia Per ben letizia e per male aver lutto); sulla dottrina etica del libero arbitrio si fonda il principio della imputabilità penale. Dante attua una giustizia “distributiva”: i generi delle pene sono tratti dalla stessa materia delle operazioni perverse: la pena è “proporzionata” all’azione malefica (…siano la colpa e il duol di una misura…). Opera una sorta di legge del taglione; agli ipocriti è inferta una cappa di piombo; ai seminatori di discordie, tagli; oppure è applicata la pena antitetica in contrapposizione con il fatto: gli indovini camminano all’indietro; i superbi piegano il collo; gli invidiosi hanno gli occhi cuciti; i pigri vanno di corsa; i golosi hanno fame e sede. Per lussuriosi gravi, Paolo e Francesca, il tormento non è essere sbattuti dal vento, ma il tumulto interno di andare eternamente insieme, come insieme peccarono e morirono; sentiranno sempre le ansie della passione amorosa e peccaminosa, senza raggiungere la felicità: non è un premio stare insieme, una clemenza, ma la continuità della colpa, causa del dolore. Il Conte Ugolino, nella ghiacciaia, mentre rode il capo dell’Arcivescovo Ruggieri esprime un perenne odio rinnovato e di fame su colui che lo aveva fatto morire d’inedia: la pena non è il ghiaccio, per aver tradito la Patria, ma l’odio e la passione di vendetta, fame insaziata. Per Farinata degli Uberti, la pena non è la tomba rovente, e di sentirsi arroventare le carni nella tomba infuocata, ma la sconfitta e la cacciata da Firenze. (Augusto Conte, avvocato del Foro di Brindisi)
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