MOBBING DEL DIPENDENTE di Tanino MIANO

 

 

 

 

 

 

 

Nel solco di precedenti univoci arresti giurisprudenziali, la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con sentenza 20 novembre 2019 – 4 dicembre 2020, n. 27913, ha espresso il principio secondo il quale “rivolgere accuse infondate, con termini offensivi, ad una collega è mobbing e il datore di lavoro, in questi casi, è tenuto al risarcimento del danno per non aver garantito la serenità del dipendente dagli atteggiamenti vessatori dei suoi dipendenti“. La vicenda definita dalla superiore pronuncia ha inizio in primo grado in cui il giudice ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento irrogato ad una lavoratrice mobbizzata e ha disposto la reintegrazione della stessa nel luogo di lavoro, condannando la società datrice al pagamento, in favore della prima, dell’indennità risarcitoria dal licenziamento sino alla effettiva reintegra, oltre al versamento dei contributi maturati e maturandi. Il giudice dell’appello ha condannato, altresi’, la società al pagamento, in favore di quest’ultima di una somma a titolo di risarcimento del danno da invalidità temporanea conseguente al mobbing, confermando, nel resto, la sentenza impugnata. In particolare, il giudice dell’appello sottolineava che gli atteggiamenti e i comportamenti tenuti dai dipendenti nei confronti della lavoratrice sono stati idonei ad integrare la fattispecie di mobbing, nei termini sintetizzati dall’ormai costante giurisprudenza di legittimità. Ricorrono, infatti, nel caso di specie, tanto il requisito oggettivo (pluralità di atti o fatti, caratterizzati da sistematicità), quanto quello soggettivo. Il primo si è concretizzato nella quotidianità delle offese e dei rimproveri ingiustificati con cui i dipendenti mortificavano la lavoratrice. L’elemento soggettivo risulta provato, invece, dall’offensività dei termini utilizzati e delle accuse assolutamente infondate dirette alla lavoratrice, suscettibili di evidenziare la volontà di prevaricazione dei suddetti dipendenti nei confronti della stessa. Per la cassazione della sentenza proponeva ricorso la società. Il giudice di legittimità, rigettando il ricorso, ha osservato che il giudice del merito ha correttamente rilevato che “nel caso in esame, sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla lavoratrice, tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 c.c. Il datore, in particolare, sebbene, in una circostanza, avesse udito le grida e sebbene fosse stato informato, non ha mai reagito a tutela dell’integrità morale di quest’ultima. Ciò rilevando, il giudice del merito ha opportunamente, seppur implicitamente, evidenziato la posizione di “garante” che spetta inderogabilmente al datore di lavoro. In tale senso, infatti, la dottrina e la giurisprudenza più attente hanno consacrato, anche in ambito giuslavoristico, il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l’agire privato in considerazione del fatto che l’attività produttiva è subordinata, costituzionalmente, all’utilità sociale da intendersi, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità (di cui il datore di lavoro è garante). Da ciò consegue che la concezione “patrimonialistica” dell’individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute – anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa. La mancata predisposizione di tutti i dispositivi atti a tutelare la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro viola, infatti, l’art. 32 Cost., che garantisce il diritto alla salute, e l’art. 2087 c.c., che prevede un obbligo del datore di lavoro di predisporre anche le “misure atte a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità (morale)”.

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