Per quanto siano passati ormai 18 anni dalla mia abilitazione forense, riesco ancora a immedesimarmi in quella che è una delle vicende più significative nella vita di un aspirante avvocato. Non perchè abbia sofferto particolarmente quella prova (ho frequentato lo studio dove svolgevo la pratica fino al pomeriggio prima dell’esame), e ho avuto la fortuna – sottolineo fortuna – di superarla al primo tentativo, del mio attuale Presidente del COA, ma perchè ricordo ancora, con ricchezza di dettagli, il momento in cui venni a sapere di essere stato ammesso alle prove orali, dalla voce di un avvocato appena meno giovane di me,Gianluca Ursitti. Ho avuto l’onore di rappresentare i giovani avvocati italiani, e le regole non scritte della mia Associazione mi imporrebbero di astenermi dall’intervenire su temi di politica forense. Ma per questa volta farò un’eccezione, che spero il Presidente Antonio De Angelis vorrà perdonare. Parto dalla fine. Dalla conclusione: i dati degli ammessi all’orale sono scandalosi. Inaccettabili. Non è giusto frustrare le aspettative di due candidati su tre (percentuale che in certe zone d’Italia è addirittura superiore). Un dato decisamente allarmante se si considera che, tra quelli ammessi all’orale, una buona metà non ha alcuna intenzione di svolgere la professione forense. Qualche passo indietro mi consentirà di svolgere qualche riflessione più ampia. La L. 27/2012 (di conversione del cd “decreto liberalizzazioni”) ha ridotto la durata della pratica forense a 18 mesi, in luogo dei precedenti 24. Di questi 18 mesi, in base alla L 247/12 6 possono svolti durante l’ultimo anno di Università. Questo micidiale uno-due ha messo al tappeto la pratica forense così come io l’ho vissuta (due anni pieni, intensi, di rapporto con lo studio legale, i fascicoli, i processi, le riviste, i clienti, le cancellerie, i viaggi, i termini, gli appelli, il carcere). Da qualche anno a questa parte, la pratica forense per la maggior parte dei giovani assume un’altra fisionomia: corsi di preparazione all’esame, studio per millemila concorsi, corsi post-universitari di dubbia utilità, e nel tempo libero due pomeriggi a settimana nello studio (magari a rispondere al telefono) e 20 (ma mai 21) udienze semestrali. Chiariamolo subito (detesto i nostalgici dei “tempi che furono”): non è colpa dei giovani praticanti. Quelli di oggi non sono diversi da noi di ieri o da voi dell’altro ieri. Sono solo meno fortunati, essendosi trovati nel momento peggiore per affacciarsi alla più affascinante e appassionante professione del mondo. È colpa di chi ha scritto queste leggi immonde, degli avvocati che hanno avallato questi ritmi e ne hanno tratto vantaggio per mortificare la concorrenza e delle istituzioni forensi che hanno omesso ogni tipo di controllo. E la selezione di ieri non era più rigorosa o più meritocratica di oggi. I “figli di” hanno sempre trovato scorciatoie. Quando gli avvocati erano 20.000 non erano tutti bravi o tutti onesti. Analfabeti e banditi ci sono sempre stati, ci sono e sempre ce ne saranno. Ogni anno assistiamo a una vera e propria lotteria: ho la netta sensazione che buona parte degli elaborati non venga nemmeno preso in considerazione. Tra i fortunati i cui pareri vengono quantomeno scrutinati, sono avvantaggiati quelli che hanno investito più tempo nello studio teorico degli istituti, a discapito di quanti, invece, hanno sudato notte e giorno per rubare al dominus le altre – parimenti importanti – qualità dell’avvocato: deontologia, strategia, esperienza… (potrei continuare con altre venti qualità). In un dibattito pubblico ho avuto un violento scontro verbale con un parlamentare (che ha anche rivestito ruoli nell’esecutivo) di una forza politica asseritamente liberale e riformista, che ha affermato – senza vergogna alcuna o addirittura non rendendosi conto della gravità – che gli avvocati sono troppi e quindi l’esame serve per limitare l’accesso. Io penso che un esame di abilitazione debba essere poco più che una formalità. Se selezione ci deve essere, va fatta a monte, con criteri rigorosamente meritocratici, e non a valle di un percorso di vita e di studi con in mente un solo obiettivo. Non è accettabile che uno solo di questi giovani aspiranti avvocati veda la propria strada sbarrata non per sue colpe, ma per la profonda ingiustizia di un sistema antiquato, disomogeneo e bizzarro. Lascio ad altri, più titolati di me (l’AIGA come sempre farà un ottimo lavoro), il ruolo di proporre riforme organiche della materia. Io mi limito ad osservare che: – il percorso dell’aspirante avvocato debba, sì, partire dall’Università, ma non nella forma apparente quanto minimale oggi congegnata; – un periodo di tirocinio presso un magistrato è certo utile, ma deve durare non oltre la metà di quello da svolgere – effettivamente – presso uno studio legale; – la durata complessiva del percorso formativo non può essere inferiore a tre anni, ed avere carattere di esclusività; – la presenza in udienza deve essere effettiva e costante, puntualmente verificata dagli Ordini Forensi (che, ormai privi delle competenze disciplinari, potrebbero ben dedicarsi alla formazione delle giovani generazioni); – al termine di questo percorso, l’abilitazione deve essere poco più che una formalità; – lo scrutinio dei candidati deve essere omogeneo, oggettivo e soprattutto tempestivo: è necessario passare ai test a risposta multipla, con eventuale successivo colloquio. Mi rendo conto che tutto ciò richieda un sovvertimento di radicate abitudini e convinzioni, ma penso che sia necessario e non più differibile. Spero in uno scatto d’orgoglio dell’Avvocatura, che deve recuperare la sua credibilità non con una finta severità (che traspare da alcuni giornali e dai commenti compiaciuti di tanti, troppi avvocati intenti ad autocertificarsi elite), ma con una reale modernità, che passa per un recupero di quei tempi e modi della pratica che, di questo passo, rischiano di scomparire definitivamente.