DIMISSIONI BONAFEDE: MALINCONICO SCRIVE A CONTE

Illustrissimo Presidente,  Le scrivo quale Coordinatore dell’Organismo Congressuale Forense che, in forza dell’art. 39 della legge n. 247/2012 e in rappresentanza del Congresso Nazionale Forense, costituisce l’esplicazione non vigilata dal Governo dell’autonomia ed indipendenza dell’Avvocatura italiana, per sottoporre alla Sua autorità di Presidente del Consiglio dei Ministri e rappresentante del potere esecutivo, il moto spontaneo di forte indignazione che hanno suscitato nella Classe Forense e, più in generale, nella comunità dei Giuristi italiani le dichiarazioni rese dal responsabile del Dicastero della Giustizia, in diverse occasioni e, anche di recente, a diversi organi di stampa. Le esternazioni, che hanno avuto amplissima diffusione ed eco, appartengono alla nota e controversa questione dell’imminente entrata in vigore dell’art. 1 della legge n. 3/2019 con cui è stato inibito il compimento della prescrizione dei reati nei casi di giudizi pendenti oltre il primo grado. Questione in ordine alla quale è nota la posizione dell’Avvocatura Italiana che ha dato luogo a forme di protesta, composte ma fermissime, dell’Organismo che rappresento e dell’Unione Nazionale delle Camere Penali, con l’adesione di numerosissimi ed autorevoli rappresentanti del mondo scientifico ed accademico. La reazione generalizzata dell’Avvocatura, che già vede sul territorio prese di posizione formali dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati (che in qualche caso sono arrivati a richiederne le dimissioni), nasce dalle dichiarazioni con cui il Ministro della Giustizia, agendo in modo assolutamente non adeguato alla funzione di garante della Giurisdizione italiana e dei soggetti che la esercitano, nell’intento di dare comunicazione divulgativa delle (ipotetiche) positività della riforma, ha abbandonato ogni forma istituzionale ed ha eluso la necessità di evidenziare le importantissime criticità – anche costituzionali – già da tempo sottolineate da pur autorevolissimi giuristi italiani, dando un quadro semplicistico e ridotto a esplicazioni collidenti con i più elementari principi del nostro sistema di diritto penale. Inaccettabile è apparsa a tutti la banalizzazione di una questione complessa e dolente, nella quale, al di là di ogni considerazione nel merito, si sacrificano principi di civiltà giuridica, frutto e orgoglio del pensiero giuridico italiano (studiato e poi adottato da moltissimi ordinamenti del mondo occidentale), alla sopravvenuta esigenza di efficienza del nostro sistema giudiziario gravato da gravissima carenza di risorse. Così come inaccettabile è apparso il riferimento, a volte esplicito ma comunque sempre sotteso alla narrazione divulgativa con cui il responsabile del Dicastero della Giustizia in questi mesi ha accompagnato la riforma, alle presunte responsabilità dell’Avvocatura rispetto alle lungaggini processuali e alla amplissima mole di reati estinti per prescrizione: prospettazione irricevibile in quanto le cause del fenomeno risiedono nella cronica carenza di strutture e mezzi: noti sono, senza bisogno di particolari approfondimenti, i principi in forza dei quali alle parti processuali e ai loro difensori non è consentita alcuna forma di differimento dell’iter processuale che non comporti automaticamente la sospensione del decorso dei termini processuali. Ma più grave è il disagio che l’Avvocatura Italiana sta provando in quanto, da oltre sei mesi, dopo l’improvvisa conclusione dei lavori dei tavoli sulle riforme dei riti penali e civili, il Ministro della Giustizia intrattiene attività di consultazione esclusivamente con la rappresentanza istituzionale forense, soggetta come noto alla diretta vigilanza del dicastero, mentre ha negato ogni forma di dialogo agli organismi che svolgono la rappresentanza politica dell’Avvocatura che vedono nel sistema congressuale e nella rappresentanza dell’Organismo Congressuale Forense il momento della massima sintesi. Preoccupa in tal senso la recente costituzione di un tavolo di consultazione sulla riforma della disciplina dell’accesso alla professione forense, al quale non siede l’Organismo Congressuale. Al riguardo è doveroso sottolineare che le modalità di accesso alla professione costituiscono il primo, e fondamentale, elemento di costruzione di una professione forense realmente adeguata a svolgere il delicato ruolo ad essa demandata dalla Costituzione della Repubblica, che ne presuppone la libertà ed indipendenza dal potere esecutivo. Si tratta dunque di una situazione che pone una vera emergenza, non essendo accettabile né che su una vicenda tanto delicata i toni del confronto assumano un livello inadeguato al rilievo sociale degli organismi che la stanno conducendo né che l’Avvocatura italiana veda conculcata la voce e l’azione degli organismi e delle associazioni che ne incarnano l’autonomia e lo spirito vitale, prezioso patrimonio della nostra civiltà giuridica. È per tali ragioni che, per la carica che Ella ricopre e per la Sua indiscussa autorevolezza personale e scientifica, la investo della questione, per la quale l’Organismo, interpretando le accorate invocazioni di intervento che ci pervengono da ogni parte del territorio nazionale, dovrà necessariamente intraprendere iniziative volte a richiamare il Ministro per riequilibrare le necessarie interlocuzioni con l’Organismo Congressuale Forense e per ripristinare una doverosa e corretta informazione proveniente dagli organi di Governo. Nell’auspicio di un Suo intervento, volto a ricomporre prontamente lo strappo che ne è derivato, le porgo i saluti miei e di tutti i componenti dell’Organismo Congressuale Forense.

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