NILDE GIOVANE AVVOCATO: LA LETTERA DAL SUD di Nilde INCARDONA

“Cara Alley,

mi chiamo Nilde. È un nome importante, di cui vado fiera; evoca l’assemblea costituente ed uno dei genitori, delle madri, della nostra beneamata carta Costituzionale; mi riporta ad un tempo, non poi così lontano, in cui i valori non erano solo belle parole di cui riempirsi la bocca, ma modi concreti di operare nella società e nella politica. Se un’Italia così è esistita, ho buone ragioni per sperare che essa possa ritornare tale, persino migliore. Lo confesso, sono ambiziosa. Ma anche delusa, arrabbiata eppure mai stanca di credere. Ho trentun’anni anni ed in me tutti i sogni del mondo. 

In terra di Sicilia, in quel profondo sud da cui provengo, la sabbia colore dell’oro ancora appanna gli occhi di molti; si finge di non capire e di non vedere; la verità è immolata in nome dell’apparenza. E così, cammini per le strade di paese, ti aggiri per le stanze dei tribunali, e la tocchi con mano l’opulenza: è in un capo firmato, nel rolex al polso, nella macchina di lusso. Ti chiedi come sia possibile cotanta ricchezza. In fondo, c’è la crisi!
Cara Alley, qui i genitori ti sostengono fino a distruggersi. Ci si chiede cosa resterà di tanto lusso, venuti i meno i pilastri familiari. “Ma per ora non ci pensare! Fatti la famiglia e ti fai mantenere dai tuoi. Tutti siamo aiutati!” mi suggerisce un’amica, con nonchalance.

Osservando i miei giovani colleghi, avvocati del foro, penseresti che gli affari vanno a gonfie vele: clienti come se piovesse, parcelle fruttuose, incarichi di prestigio. Ma si sa, questa è la terra delle contraddizioni. E così tutto va al contrario: ogni mattina, i figli in età da lavoro restano a casa, i genitori in età da pensione vanno a lavorare. Il dramma è che nessuna delle due è una scelta libera, perché imposta da un sistema assurdo, paradossale, che pretende giovinezza e vigore in chi meriterebbe riposo ed uccide dentro chi giovane lo è per età anagrafica.

In Sicilia la crisi c’è da sempre, c’è da ancor prima di iniziare; è presenza immanente eppure ignorata. È la questione meridionale. Al concorso per assistenti giudiziari, 98.000 partecipanti, a fronte d i 300.000 iscritti, c’erano pure i colleghi altezzosi. In silenzio e purché non si sappia, quatti quatti in direzione fiera di Roma.

Le università telematiche vivono uno dei periodi più floridi della loro breve storia. Tutti iscritti per integrare le materie di laurea, ai fini dell’insegnamento del diritto nelle scuole: supplenze, di solito in paesini del nord Italia, a tempo determinato. E poi ancora, i 24 crediti Cfu richiesti dall’ultima riforma, il certificato di inglese B2, per fare il concorso da funzionari. Un continuo, estenuante dispendio di soldi, nella speranza di farli; anche pochi, quelli per campare.

È forse la solita apoteosi del posto fisso, ma è anche molto di più. È il bisogno sperato, la speranza disperata di avere un guadagno a fine mese, la certezza di un futuro. È la nascita della consapevolezza. È capire che no, mamma e papà non ci saranno per sempre.

Eravamo ambiziosi. Lo siamo ancora, solo un po’ più incazzati. Ci siamo sentiti falliti, stupidi. Ci siamo chiesti più volte cos’è che abbiamo sbagliato.

Oggi comprendo con chiarezza che se la maggior parte dei giovani vive questo dramma interiore, prima ancora che economico e sociale, il problema non va certo imputato alle mancate capacità. Ce ne sono tanti, di talenti; c’è volontà, c’è la voglia di farcela, c’è la rabbia della rivalsa. È lo Stato a mancare. Lo Stato manca quando ti chiude una porta in faccia senza nemmeno darti l’opportunità di tentare; lo Stato perde quando rinuncia alla competenza in nome del raccomandato di turno, che non ci metterà mai la stessa passione, perché quel posto non lo ha conquistato col sudore. Lo Stato fallisce se i giovani smettono di credere in Esso.

In questa discesa senza fine, laddove, a trent’anni, dovresti avere la vita in pugno, è facile sentirsi sbagliati, incapaci, inadeguati. Lo è ancor di più quando si è appellati come “bamboccioni”, immaturi. Le aspettative riposte nei confronti della nostra generazione si sono ritorse contro chi le aveva, e persino contro noi stessi. Ed ecco allora il panico, il senso di oppressione, perché l’Italia è una mamma che ti allatta e poi ti abbandona. Tu, un giovane che impara presto, nolente o volente, a trovare dentro te quel che non ti è stato concesso, o peggio ancora, ti è stato tolto: l’autostima, la fiducia, nonostante niente sia andato come pensavi, nonostante tutto.

Guardarsi indietro e vedere andare letteralmente in fumo anni ed anni di studi, fatica, denaro, certo non è facile. Devi fare i conti con un senso di intima, profonda frustrazione. La battaglia più grande, allora, è riuscire a far tacere quel severo giudice interiore, non prima di zittire i “tribunali” social ed i parenti, e gli amici dei parenti. La vittoria è comprendere come nella vita, in fondo, l’obiettivo sia essere felici. Ci vuole il coraggio di guardarsi dentro, in una società che volge lo sguardo solo al fuori. E poi pensare che tutto è mutabile, nulla definitivo, perché siamo esseri in continuo divenire e potremo, con i nostri tempi ed una nuova consapevolezza, trasformarci in qualcosa di nuovo, impensato, eppure meraviglioso.

Se riusciamo a far questo per noi stessi, abbiamo già costruito un pezzo di futuro”.

Nilde Incardona

(Fonte: Sole 24 ore, 24.4.2018)

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