Quello dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ è un principio di natura anglosassone, proprio del common law inglese, che da sempre rappresenta la pietra angolare della giurisprudenza penale degli Stati Uniti. «Beyond a reasonable doubt». Dopo un travagliato iter, il principio è stato introdotto anche nell’ordinamento italiano, con l’art. 5, legge n. 46 del 2006, c.d. legge Pecorella, che ha modificato l’art. 533 c.p.p., ai sensi del quale la sentenza di condanna può essere pronunciata solo se l’imputato risulta colpevole, appunto, oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire che si ha condanna solo allorquando gli elementi probatori acquisiti escludono eventualità remote, concretamente non realizzabili e senza il minimo riscontro nelle emergenze processuali. E invero il controllo da parte del giudice consiste nella verifica dello standard minimo affinché la sentenza di condanna possa ritenersi legittima, attraverso un procedimento logico che, a conferma delle regole stabilite in tema di valutazione della prova in generale, ex art. 192 c.p.p., e di attento esame (motivato) delle ipotesi contrarie a favore dell’imputato, ex art. 546, comma 1, lett. e, c.p.p., deve terminare con la certezza processuale che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio. Tale principio è strettamente correlato a coesistenti e preesistenti garanzie processuali quali:
– la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, ex artt. 27, comma 2, cost., 6 CEDU, e 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici;
– l’onere della prova a carico della Pubblica Accusa, atteso che l’oggetto di accertamento del procedimento è la colpevolezza dell’imputato e non la sua innocenza [tanto che il pubblico ministero è obbligato a dimostrare la responsabilità penale dell’imputato, mentre questi non ha l’onere di provare alcunché, potendo la sua assoluzione provenire dall’assenza o comunque dall’insufficienza delle prove a suo carico. La stessa Corte costituzionale ha escluso l’ammissibilità di un onere della prova nel processo penale a carico dell’imputato, poiché manifestamente in contrasto con i principi costituzionali dell’indisponibilità della libertà e di legalità, tanto da poter affermare che l’imputato avrebbe non un onere, bensì un «diritto alla prova», ovvero un «diritto a difendersi provando» (Corte cost. n. 111 del 1993)];
– l’obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie e della necessaria giustificazione razionale delle stesse, ex art. 111 cost.;
– la regola di garanzia in dubio pro reo prevista dall’art. 530, commi 2 e 3, c.p.p., secondo la quale il Giudice, in caso di insufficienza, contraddittorietà ed incertezza della prova d’accusa, deve pronunciare sentenza di assoluzione.
Si tratta, è bene ribadirlo, di mere correlazioni con garanzie processuali che si differenziano sostanzialmente dal principio in questione, anche se intenso e serrato è stato il dibattito parlamentare sull’art. 5. Non sono mancate le perplessità. Il timore è che la codificazione del principio possa intimidire il giudice, inducendolo a credere che il legislatore esigerà un più alto standard dimostrativo. Ma questo pare voler dire ammettere la consuetudine di standard bassi. La Suprema corte, anche a Sezioni Unite, si era, anche prima della modifica dell’art. 533 c.p.p., già espressa in tal senso (Cass., Sez. un. 21 aprile 1995, n. 11; Cass., Sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328; Cass., Sez. un., 30 ottobre 2003, n. 45276; Cass., 21 maggio 2008, n. 31456; Cass., 11 maggio 2006, n. 20371), affermando all’uopo che «la prova indiziaria è quella che consente la ricostruzione del fatto in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche di escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza ed in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili» (Cass., 2 marzo, 1992, n. 3424; Cass., 8 aprile 1997, n. 1518; Cass., 10 settembre 1995, n. 3777). L’introduzione del principio secondo il quale la sentenza di condanna può essere pronunciata solo se l’imputato risulta colpevole oltre ogni ragionevole dubbio esclude, dunque, la possibilità che il giudice di merito preferisca una particolare ricostruzione del fatto esclusivamente perché ritenuta più probabile rispetto alle altre emerse nel corso del procedimento. Il Giudice ha l’obbligo di motivare non solo sulla eventuale improbabile diversa ricostruzione dei fatti, ma anche sulla sua non ragionevolezza e plausibilità tale da essere idonea a superare la soglia del ragionevole dubbio o comunque a escludere la possibilità di ipotesi alternative, quantomeno ragionevoli e plausibili quanto quelle privilegiate dalla Pubblica Accusa. Negli scorsi mesi, in più occasioni e anche in occorrenza della presentazione del dettaglio tecnico della proposta di riforma organica della Giustizia, Meritocrazia Italia ha osservato che il vero e reale riconoscimento di tale principio potrà avvenire solo con il suo inserimento in Costituzione, con novella dell’art. 111 cost.