RIGHT TO BE FORGOTTEN di Silvia GAETANI

Il diritto alla riservatezza,  si esplica anche attraverso il diritto all’oblio, che negli Stati Uniti viene icasticamente individuato come “right to be forgotten. Fanno da contraltare al diritto all’oblio,  la libertà d’espressione del pensiero e, specularmente, il diritto all’ informazione. Trattandosi di tutti diritti fondamentali, necessariamente vanno esercitati  in maniera bilanciata.  Costituisce violazione del diritto all’oblio, es. l’attività di una trasmissione televisiva che manda in onda un servizio su un ex attrice, ritiratasi dalle scene,  servizio che peraltro  la ritrae in una condizione disagiata nella quale si trova ora a vivere?  La vicenda,  va affrontata focalizzando l’attenzione sulle fonti normative che nel nostro ordinamento si occupano di tutela della riservatezza. In particolare, il riferimento è al D.L.vo del  30 giugno 2003 n. 196, codice in materia di protezione dei dati personali (Cd. Codice Privacy”) , così come oggi si presenta alla luce delle novità intervenute a livello europeo che hanno condotto all’elaborazione del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (Cd. GDPR), dando vita a una normativa che secondo la dottrina: “ha sancito il passaggio da una concezione statica a una concezione dinamica della tutela della riservatezza”. Dal considerando numero 1 del GDPR, si coglie immediatamente l’essenza di suddetta protezione in relazione al trattamento dei dati personali. La tutela è intesa alla stregua di un diritto fondamentale dell’individuo, anche in ragione del valore accordatole dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea all’art. 8, paragrafo 1.  Sin da subito però si evidenzia un’esigenza di bilanciamento, dal momento che tale diritto non è da intendersi come una prerogativa assoluta. Ciò che si rende necessario verificare è fino a che punto il diritto all’oblio può garantire tutela alla ricorrente, senza per ciò stesso invadere i confini delle pur fondamentali libertà di espressione e d’informazione.  Un primo indizio è quello che proviene dall’articolo 17 del GDPR, il quale, al paragrafo 1, tutela il diritto all’oblio, inteso nella sua sfaccettatura di diritto alla cancellazione dei dati personali detenuti dal titolare del trattamento, elencando una serie di requisiti alla cui realizzazione è condizionato il riconoscimento del diritto stesso. Ebbene, al paragrafo 3, lettera a), lo stesso articolo 17 prevede un’eccezione a quanto fino a quel momento stabilito: “i paragrafi 1 e 2 non si applicano nella misura in cui il trattamento sia necessario per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione”. Si pone qui un primo cenno alla necessità di un bilanciamento, esigenza di cui si fa portavoce, di riflesso, anche il legislatore nazionale nel già richiamato Codice Privacy.  Al titolo XII, trova spazio l’articolo 137, il quale, al punto 3, dichiara che: “In caso di diffusione o di comunicazione dei dati per le finalità di cui all’articolo 136 restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all’articolo 1, paragrafo 2, del Regolamento e all’articolo 1 del presente codice e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico.”  In base a quest’ultimo capoverso, si potrebbe tentare di sostenere una tesi difensiva delle esigenze espressive e informative riconducibili in capo alla trasmissione televisiva. All’uopo, ci si richiamerebbe al fatto che le informazioni sulle vicende relative alla attuale condizione di vita della ex attrice erano state ottenute anche grazie all’ausilio dei social network e quindi, attraverso fotografie rese pubbliche probabilmente dalla diretta interessata, oppure, in caso contrario, attraverso fotografie che pur caricate da altri, circolano nel social network e in qualche modo risultano riconducibili al suo nome perché magari la ricorrente, pur potendolo fare, non avrebbe voluto interrompere quel “link” creatosi tra la fotografia e il suo profilo personale. D’altronde, come avrebbe potuto la rete televisiva riconoscere quel volto a distanza di ben trentadue anni, se non attraverso tale collegamento? In questa sede però, data l’incertezza che ruota attorno a questa ricostruzione, non si intende sostenere una simile argomentazione. Tra l’altro, seppur si riuscisse a dimostrarne la rispondenza al caso concreto, nel nostro ordinamento, essa poggerebbe comunque su pilastri fin troppo deboli, finendo per scontrarsi frontalmente con la già menzionata esigenza, posta dalla legge, per cui l’informazione deve riferirsi a fatti di interesse pubblico.   Quindi, come si dovrebbe procedere per un buon bilanciamento? Un chiarimento in tal senso è quello che ci proviene dalla recentissima pronuncia della Corte di Cassazione la quale ha colto l’occasione per chiarire, una volta per tutte, quali sono i presupposti che giustificherebbero una limitazione del diritto all’oblio. Conviene soffermarsi, in particolare, sul fatto che, secondo la Corte, debba sussistere “un interesse effettivo ed attuale alla diffusione delle notizie, nel senso che quanto recentemente accaduto trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l’attualità”. Risolvendosi quindi, la divulgazione di fatti relativi alla vita di una persona, in un effimero tentativo della rete televisiva di “accalappiare” audience, diremmo che quella di tipo commerciale è una ragione fin troppo labile per poter ravvisare, nel caso di specie, una legittima compressione del diritto di una persona alla sua riservatezza. D’altronde se lo stesso legislatore avesse voluto giustificare un qualsiasi tipo di interesse, anche quello meno commendevole del volgo, più che aprire la strada a un’esigenza di bilanciamento, così come ha fatto nelle norme suindicate, avrebbe svuotato di qualsiasi contenuto quel diritto all’oblio che invece rivendica nel nostro ordinamento uno spazio d’azione sempre più ampio. È opportuno poi ricordare che la dinamica del bilanciamento si può dispiegare in maniera differente sul terreno di ciascun singolo caso: come dimostrato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, in una pronuncia relativa al caso “Fuchsmann contro Germania”, se la notizia che si desidera divulgare riguarda vicende quali la commissione di un reato da parte di un soggetto posto sotto i riflettori dell’opinione pubblica per la sua notorietà, non si può far prevalere il diritto alla riservatezza sull’interesse pubblico a conoscere della vicenda. Nel caso della nostra ex attrice, la diffusione di informazioni legate alla sua vita privata non soddisfa un interesse tale da giustificare una compressione del suo diritto alla riservatezza, dal momento che la donna sfuggiva ai riflettori da ben trentadue anni e nessun interesse attuale ne giustificava la reviviscenza sotto gli occhi del pubblico, né tantomeno questa si vede giustificata da “quelle ragioni di giustizia, di sicurezza pubblica, o di interesse scientifico o didattico, che sole possono giustificare una nuova diffusione della vicenda da parte di una trasmissione televisiva”. Fino a questo momento, abbiamo sviscerato la problematica tentando di addivenire man mano a una soluzione, per quanto possibile, confacente all’orientamento che nel continente si è venuto affermando in ragione di una forte sensibilità sviluppatasi sul tema legato alla protezione dei dati personali. D’altronde questo generale orientamento non è certo deprecabile, finché la compressione di un diritto fondamentale, quale quello alla riservatezza, avviene a condizioni piuttosto stringenti. Tuttavia, il rischio che si paventa è quello per cui tale esigenza di tutela degeneri, nel tempo, in uno svuotamento di contenuto di quella pur importante prerogativa che in una società democratica è rappresentata dalla circolazione delle informazioni. Si tratta di un rischio che autorevole dottrina americana mette in luce quando tenta di spiegare perché negli Stati Uniti appare così difficile addivenire a una normativa organica in materia di protezione dei dati personali, tale da fissare nero su bianco il riconoscimento di quel “right to be alone” strenuamente difeso, nel 1980, da Warren e Brandeis . Con ciò non si vuole certo esaltare lo scetticismo americano in tema di “secrecy”, piuttosto l’obiettivo è quello di individuare quali potrebbero essere gli elementi, pur valevoli di considerazione, che si opporrebbero a una soluzione fin troppo garantista verso il diritto alla riservatezza, in una società come quella attuale in cui l’informazione è un valore avvertito sempre più come elemento di ricchezza e sviluppo per le popolazioni.

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