LA MOGLIE CHE NON VUOLE RAPPORTI, SE OBBLIGATA E’ VIOLENZA SESSUALE

L’argomento può sembrare pruriginoso o si può prestare a facili ironie: invece anche i rapporti sessuali all’interno del matrimonio hanno una rilevanza giuridica.

Un marito che costringe la propria moglie ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà è punibile per il reato di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis del Codice penale. Per quanto concerne la “prova” di quanto avvenuto, la Corte di Cassazione, terza sezione penale, nella sentenza 16608 del 2017 ha ricordato che può essere sufficiente la sola dichiarazione della donna, dopo che il giudice ne abbia intuibilmente vagliato l’attendibilità. I giudici hanno sottolineato come nei reati sessuali spesso la perpetrazione della condotta avvenga alla sola presenza del soggetto cui è attribuito il comportamento delittuoso e della parte offesa, senza testimoni.

L’art. 609-bis cod. pen., che afferma che: Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 28 marzo – 11 ottobre 2018, n. 46051
Presidente Cavallo – Estensore Zunica

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 18 ottobre 2016, la Corte di appello di Roma confermava la sentenza del 12 aprile 2013, con cui il Tribunale di Latina aveva condannato Fr. Al. alla pena di anni 2 e mesi 6 di reclusione. L’accusa elevata a carico dell’imputato era in particolare quella di aver commesso i reati di cui agli art. 81, 609 bis e 56 – 609 bis cod. pen., per aver costretto in più occasioni sua moglie Vi. Ti. a subire atti sessuali contro la sua volontà, minacciandola e picchiandola se non avesse acconsentito ai rapporti sessuali, e per avere inoltre in un’occasione compiuto atti diretti in modo non equivoco a costringerla nuovamente ad acconsentire a un rapporto sessuale, non riuscendo nell’intento per la reazione della vittima e l’intervento delle loro figlie, in Cori fino al 19 settembre 2008.
    Rispetto a tale imputazione, il Tribunale dichiarava non doversi procedere rispetto al delitto di violenza consumata, per difetto di querela, circoscrivendo il giudizio di colpevolezza solo all’episodio di violenza sessuale tentata.
    2. Avverso la sentenza della Corte di appello di Roma, Al., tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi.
    Con il primo, la difesa deduce il difetto di motivazione della sentenza impugnata, che si sarebbe limitata a ripercorrere la sentenza del Tribunale di Latina senza compiere alcuna autonoma valutazione del materiale probatorio. Parimenti carente, nella prospettazione difensiva, risulterebbe, inoltre, il giudizio sulla credibilità della persona offesa, le cui dichiarazioni, invece, sarebbero state contraddittorie e prive di adeguati riscontri esterni.
    Con il secondo motivo, il ricorrente eccepisce il vizio della motivazione della sentenza impugnata rispetto al mancato riconoscimento della desistenza volontaria, avendo la Corte fondato il proprio giudizio su mere supposizioni.
    Con il terzo motivo, la difesa contesta il diniego delle attenuanti generiche, in quanto avvenuto in maniera apodittica.
    Con il quarto motivo, infine, viene censurata la mancata concessione della sospensione condizionale della pena, non essendovi stata sul punto alcuna valutazione.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
1. Iniziando dal primo motivo, va senz’altro esclusa la carenza motivazionale dedotta dalla difesa, posto che le due sentenze di merito, tra loro conformi e dunque destinate a integrarsi l’una con l’altra, hanno ricostruito i fatti di causa in maniera puntuale, chiara e aderente al materiale probatorio raccolto.
In tal senso sono state valorizzate le dichiarazioni della moglie del ricorrente, la quale, nel descrivere le angherie subite dal marito negli anni, si è in particolare soffermata sull’unico episodio per cui è intervenuta condanna, ovvero il tentativo di violenza sessuale subito la sera del 19 agosto 2008, allorquando per l’ennesima volta Al. pretendeva di fare sesso con la consorte, malgrado il fermo e plateale rifiuto di costei, che aveva attirato l’attenzione delle figlie, il cui provvidenziale intervento impediva il completamento dell’aggressione fisica. La disamina dell’episodio illecito è avvenuta all’esito di un percorso motivazionale immune da censure, rispetto al quale peraltro la difesa ha sollevato doglianze generiche, fattuali e in ogni caso prive di adeguato conforto probatorio. Di qui la manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso.
2. Un discorso analogo vale per il secondo motivo, relativo alla qualificazione giuridica della condotta.

Sul punto, infatti, sia il Tribunale che la Corte di appello hanno correttamente rimarcato l’inidoneità del legame coniugale a giustificare la pretesa sessuale dell’imputato, richiedendo il lecito compimento del rapporto sessuale la costante presenza del consenso delle parti coinvolte, non esistendo, in particolare, alcun diritto potestativo del marito al soddisfacimento dei propri istinti sessuali.

Anche rispetto al mancato riconoscimento della desistenza, le sentenze di merito resistono alle obiezioni difensive, avendo in particolare la Corte territoriale rilevato che l’interruzione dell’azione illecita è dipesa non da una volontaria iniziativa di Al., ma dal tempestivo sopraggiungere delle figlie, le quali sono intervenute mentre la madre era ancora in balia del padre, sottraendola a lui e portandola a dormire nella loro cameretta; sul punto il racconto della persona offesa ha trovato ampia conferma nelle dichiarazioni delle figlie, ovvero di Sa., escussa in dibattimento, e di Ma., le cui sommarie informazioni rese nella fase investigativa sono state acquisite, stante il prematuro decesso della dichiarante.

A fronte di tali risultanze probatorie, correttamente valutate dai giudici di merito, la censura difensiva appare dunque destituita di fondamento, anche perché riproposta in questa sede in termini assolutamente generici, senza peraltro alcun adeguato confronto con le argomentazioni della sentenza impugnata.

  1. Manifestamente infondato è anche il terzo motivo, con cui è stato censurato il diniego delle attenuanti generiche, dovendosi al riguardo evidenziare che le sentenze di merito hanno fornito ampia motivazione in proposito, osservando come le gravi modalità del fatto attestavano l’esistenza di un dolo particolarmente intenso e la mancanza del più elementare senso di rispetto della dignità della persona e della donna in particolare, usata come strumento di piacere, avendo la Corte di appello a ciò aggiunto la considerazione del contegno processuale dell’imputato, che non ha avuto scrupoli nell’accusare i familiari, tra cui una figlia gravemente malata, pur di negare gli addebiti a suo carico.

In quanto scevra da profili di illogicità, la valutazione dei giudici di merito non appare sindacabile in questa sede, dovendosi unicamente ribadire che, al cospetto di elementi di indubbia pregnanza negativa, lo status di incensurato dell’imputato è destinato a soccombere, tanto più ove si consideri che, per espressa disposizione normativa (art. 62 bis ultimo comma cod. pen.), lo stesso non vale a giustificare da solo il riconoscimento delle attenuanti generiche.

  1. Anche l’ultima doglianza sulla mancata sospensione condizionale della pena è manifestamente infondata, posto che l’entità della pena inflitta (anni 2 e mesi 6 di reclusione) non consentiva il riconoscimento del beneficio invocato.
  2. Alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.

Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.

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