LA FUNZIONE DELL’AVVOCATO

Caro Gino Cecchettin,
non c’è modo di scrivere queste parole senza sentire il peso del dolore che la sua famiglia sta provando.
Non c’è consolazione che possa lenire una ferita così profonda, né giustizia che possa riempire il vuoto lasciato da una giovane vita spezzata. E tuttavia, mi permetta di rivolgerle queste righe, non per giustificare, ma per spiegare un ruolo che è spesso frainteso, mal visto, eppure profondamente Necessario. Il nostro lavoro non è un atto di tradimento verso le vittime; è un gesto di lealtà verso il nostro sistema giudiziario che deve rimanere saldo e credibile, non solo oggi, ma per sempre. Non difendiamo l’indifendibile per negare il vostro dolore, ma per preservare un principio che protegge tutti, soprattutto quando la tentazione di farne a meno è più forte. So che è difficile accettare certe domande. So che ogni parola pronunciata in quell’aula può suonare come un’aggiunta al vostro tormento. Ma le assicuro che il nostro scopo non è mancarvi di rispetto. Anzi, è proprio il rispetto per la vita di Giulia che ci impone di garantire che ogni accusa, ogni prova, ogni narrazione sia sottoposta, con rigore, a un confronto duro ma leale. Non perché crediamo nella sua negazione, ma perché crediamo nella verità. E la verità non può mai essere data per scontata. La giustizia è un meccanismo fragile, imperfetto, spesso motivo di frustrazione, eppure rimane l’unico strumento che possediamo per avvicinarci alla verità. Privarlo del confronto, ridurre al silenzio la voce del difensore che osa porre domande difficili, scomode significa svuotarlo della sua essenza. Ciò che resta non è giustizia, ma una forma di vendetta, e la vendetta, per quanto possa offrire un sollievo momentaneo, non cura mai le ferite del dolore. Non le attenua, non le sana. Le lascia aperte. Come difensori, siamo spesso portatori di queste verità scomode, quelle che il mondo preferirebbe ignorare. Ci costa, a volte ci odiamo per questo. Sentiamo il peso degli sguardi che ci giudicano, che ci disprezzano, eppure è proprio in quel peso, in quella tensione tra ciò che è giusto e ciò che è accettabile, che il nostro lavoro trova senso. Più scomode sono le domande, più incisiva è la difesa, maggiore sarà la giustizia della decisione. Tacere o evitare di porre certe domande non significa rispetto, significa lasciare spazio a incertezze, che potrebbero diventare terreno fertile per chiunque voglia ricamare su ciò che dovrebbe invece restare chiaro e incontestabile. Giulia merita che ogni passo verso la decisione finale sia guidato dalla ricerca della verità più pura. Perché il rispetto per chi non c’è più non si trova nel silenzio, ma nell’assicurarsi che la giustizia, questa giustizia, non lasci mai spazio a dubbi.

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