GIUSTIZIA RIPARATIVA E REPRESSIONE PENALE: UN’ANALISI

Nella lectio magistralis tenuta dal Professor John Braithwaite, vincitore del premio 𝐁𝐚𝐥𝐳𝐚𝐧 per la giustizia riparativa, ho individuato un passaggio particolarmente interessante, che mi ha illuminato e aiutato a comprendere perché sistemi essenzialmente repressivi non siano la risposta al problema criminale. Il concetto dal quale partire è quello della 𝘳𝘦𝘴𝘱𝘰𝘯𝘴𝘪𝘷𝘦 𝘳𝘦𝘨𝘶𝘭𝘢𝘵𝘪𝘰𝘯, della ‘regolazione responsiva’, ossia di un sistema regolatorio che si muove in costante interazione con gli attori sociali, adeguando i suoi riscontri alle mosse di questi ultimi. Tali risposte possono essere organizzate in una 𝘱𝘪𝘳𝘢𝘮𝘪𝘥𝘦, alla cui base vanno posizionate le azioni di giustizia riparativa, e al cui apice troviamo invece delle forti reazioni repressive. Ebbene, il Professor Braithwaite ha dimostrato come la salita verso forme di apparente maggior deterrenza non abbia effetti positivi in termini di resa e di 𝘤𝘰𝘮𝘱𝘭𝘪𝘢𝘯𝘤𝘦 all’ordinamento, quanto piuttosto – e ciò è tanto più evidente nei gradini intermedi – vada a peggiorare la situazione. Infatti – come si può osservare dal grafico – vi è un intervallo coercitivo all’interno del quale resa e resistenza all’ordinamento penale ed alle sue regole si muovono quasi di pari passo, vedendo anzi addirittura la disobbedienza crescere in modo più sostanziale, con una curva più ripida, risultando in una 𝘤𝘰𝘮𝘱𝘭𝘪𝘢𝘯𝘤𝘦 netta (cioè nella somma tra i due valori) piuttosto insoddisfacente. Ecco perché, di norma ed eccettuati casi estremi, è necessario relegare davvero la minaccia di un male grave alla piccola punta della piramide, mantenendola sempre sullo sfondo e mai in primo piano, optando invece per una 𝘮𝘪𝘯𝘪𝘮𝘢𝘭𝘭𝘺 𝘴𝘶𝘧𝘧𝘪𝘤𝘪𝘦𝘯𝘵 𝘥𝘦𝘵𝘦𝘳𝘳𝘦𝘯𝘤𝘦 – la giusta misura che garantisce deterrenza senza sfociare nella ribellione. Lavorare alla base della piramide, allora, con il dialogo, con la mitezza, con l’interazione, con il rifiuto della punizione umiliante: con la 𝐠𝐢𝐮𝐬𝐭𝐢𝐳𝐢𝐚 𝐫𝐢𝐩𝐚𝐫𝐚𝐭𝐢𝐯𝐚 dunque, la quale si innesta alla radice del conflitto, contrariamente alla mera punizione, che rimane solo in superficie. Bisogna proseguire in questa direzione, senza timidezza e senza scetticismo, raccogliendo dati su dati, per cambiare un mindset tenace, il quale affida alla repressione un ruolo primario che non può più avere.

Eleonora Emma Giulia Ravagnini, Studentessa di giurisprudenza. Tirocinante presso la XII sezione civile del Tribunale di Milano, nell’ambito dell’immigrazione e della protezione internazionale. Durante la sua esperienza ha potuto confrontarsi con magistrati di alto livello, avvocati, ricercatori (come, ad esempio, il personale EUAA) e uomini e donne provenienti da ogni parte del mondo. Il suo incarico constava di vari compiti, tra cui la predisposizione dei verbali d’udienza e audizione, la preparazione della “scheda del procedimento”, ricerche giurisprudenziali e ricerche COI, e soprattutto la redazione delle bozze dei provvedimenti, grazie a cui ha potuto approfondire le sue capacità di scrittura e di ragionamento logico – giuridico.

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