LICENZIAMENTO per GIUSTA CAUSA. CORTE di CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, ORDINANZA, 14 maggio 2024 n. 13176

SVOLGIMENTO del PROCESSO: 1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di ANCONA rigettava il reclamo proposto da A. contro la sentenza del Tribunale della medesima sede n. 87/2020, la quale aveva respinto la sua opposizione all’ordinanza dello stesso Tribunale che, nella fase sommaria del procedimento exlege n. 92/2012, aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato a detto lavoratore dalla convenuta datrice di lavoro, Labor Spa. 2. La Corte territoriale premetteva che il primo giudice aveva ritenuto pienamente dimostrata la condotta illecita contestata al lavoratore, infermiere, consistente nell’aver ripetutamente toccato gli organi genitali di una paziente ricoverata presso il nosocomio gestito dalla datrice di lavoro, approfittando degli interventi di massaggio della zona bassa dell’addome della degente. 3. Dopo aver disatteso il secondo motivo di reclamo (relativo ad aspetti formali della procedura disciplinare), la Corte esaminava congiuntamente gli ulteriori tre motivi d’impugnazione e, riconsiderate le risultanze processuali in relazione alle critiche formulate dal reclamante, condivideva pienamente le conclusioni cui era giunto il Tribunale. 4. AVVERSO TALE DECISIONE … OMISSIS … ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. 5. Ha resistito l’intimata con controricorso. 6. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Motivi della decisione: 1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c. e dell’art. 156 comma 2 c.p.c., nonché, per quanto occorrer possa, dell’art. 221 comma 4 D.L. 34/2020, convertito con modificazioni dalla L. 77/2020, in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c. – Nullità del procedimento e della sentenza”. Il ricorrente censura la sentenza di secondo grado perché in violazione delle su citate norme, la Corte d’appello: (a) all’udienza di discussione del 22 settembre 2020, ha trattenuto la causa in riserva; (b) non ha mai letto (o depositato) il dispositivo e, in data 28 ottobre 2020 (e dunque dopo ben 38 giorni dall’udienza), ha depositato la sentenza completa di motivazione e dispositivo. 2. Col secondo motivo denuncia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c. , 116 c.p.c. , 244 ss. c.p.c. , 2727 e 2729 c.c. , 2697 c.c., art. 5 L. 604/1966, art. 24 Cost. art. 111 Cost. in relazione agli artt. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.“. Per il ricorrente, la sentenza merita di essere cassata proprio nella parte in cui ha ritenuto provato il fatto posto a fondamento del licenziamento, atteso che nell’attribuire “piena efficacia probatoria” alle dichiarazioni rese da alcune informatrici agli organi di polizia giudiziaria in sede di indagini preliminari e versate in atti dalla controparte: (a) ha violato non solo gli articoli 2697 cod. civ. e 5 L. 604/1966, ma anche gli artt. 115 c.p.c. , 116 c.p.c., 244 ss c.p.c., 246 c.p.c., art. 24 e 111 Cost. e (b) non ha fatto buon governo dei principi dettati da questa Corte con riferimenti alle c.d. “prove atipiche”, violando, altresì, il disposto degli artt. 2727 e 2729 c.c. 3. Il primo motivo è privo di fondamento. 4. Come si legge a pag 1 dell’impugnata sentenza essa è stata resa “all’esito dell’udienza svoltasi in data 27 settembre 2020 attraverso il deposito telematico di note scritte contenenti le conclusioni delle parti, ai sensi dell’art. 221, comma 4, del D.L. n. 34 del 19 maggio 2020, conv. con modifiche nella legge n. 77 del 17 luglio 2020“, e “sulle conclusioni delle parti, …, a scioglimento della riserva assunta”. In parte motiva (a pag. 3) è, poi, specificato che: “La Corte, fissata udienza di trattazione scritta in seguito all’introduzione delle nuove norme processuali ad opera dell’art. 221, comma 4, del D.L. n. 34 del 19 maggio 2020, conv. con modifiche nella legge n. 77 del 17 luglio 2020, sulle conclusioni come in atti, si è riservata di decidere”. 4.1. L’impugnata sentenza è stata depositata (telematicamente) in data 28 ottobre 2020. 4.2. Risulta dalla stessa sentenza che in entrambi i gradi di merito è stato applicato il rito di cui all’art. 1, comma 47 e ss., L. n. 92/2012 (c.d. rito Fornero); il che, del resto, è tuttora incontroverso tra le parti. 5. Recita l’art. 221, comma 4, d.l. n. 34/2020, conv. con mod. nella L. n. 77/2020: “Il giudice può disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni. Il giudice comunica alle parti almeno trenta giorni prima della data fissata per l’udienza che la stessa è sostituita dallo scambio di note scritte e assegna alle parti un termine fino a cinque giorni prima della predetta data per il deposito delle note scritte. Ciascuna delle parti può presentare istanza di trattazione orale entro cinque giorni dalla comunicazione del provvedimento. Il giudice provvede entro i successivi cinque giorni. Se nessuna delle parti effettua il deposito telematico di note scritte, il giudice provvede ai sensi del primo comma dell’articolo 181 del codice di procedura civile“. 6. Tale norma rientra tra quelle recanti “misure in materia di giustizia”, emanate per tenere “conto delle esigenze sanitarie derivanti dalla diffusione del COVID-19” (cfr. comma 2 del medesimo art. 221 cit.), e si riferisce in generale alle “udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti”, senza quindi introdurre ulteriori distinzioni o specificazioni. Per conseguenza, in rapporto alla sua finalità precipua e in difetto di deroghe o eccezioni relative alla natura della causa, trova applicazione anche alle controversie di lavoro, ivi comprese quelle assoggettate al rito ex lege n. 92/2012, come quella in esame. 7. Inoltre, la previsione all’origine “emergenziale” (ma da ultimo praticamente riprodotta nel vigente art. 127 ter c.p.c. con talune modificazioni) nel suo dettato letterale è preposta esclusivamente a sostituire un’udienza civile c.d. in presenza con lo scambio telematico di note scritte da depositare entro il termine assegnato dal giudice (c.d. udienza cartolare), ma per il resto, quand’anche l’udienza così “sostituita” corrisponda a quella in cui la causa dovrebbe essere decisa o riservata per la decisione, non introduce un ulteriore modello decisorio neanche con riferimento al termine entro il quale il giudice debba provvedere all’esito dell’udienza sostituita dal deposito telematico di note scritte. Invero, il termine dei “successivi cinque giorni”, entro il quale il giudice deve provvedere, all’evidenza si riferisce solo alla decisione sulla richiesta di trattazione orale che una delle parti eventualmente abbia avanzato. 8. Non è discutibile insomma che l’art. 221, comma 4, d.l. cit., in quanto di generale applicazione, potesse essere applicato anche in questo processo. 9. Erroneamente, quindi, il ricorrente assume che detto comma “non è applicabile al “rito del lavoro””. Come premesso, infatti, anche in secondo grado, trattandosi di reclamo assoggettato alla disciplina speciale di cui ai commi 58-60 dell’art. 1 l. n. 92 del 2012, non trovava applicazione, quanto alla sentenza da emanare all’esito dell’udienza sostituita dal deposito telematico di note, l’art. 437 c.p.c. Veniva, invece, in considerazione l’ultima parte del comma 60 dell’ora cit. art. 1, a termini del quale: “La sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione”; previsione, questa, indubbiamente non incisa dall’art. 221, comma 4, d.l. n. 34/2020. 10. D’altronde, questa Corte ha più volte chiarito che, nel rito c.d. Fornero, di cui all’art. 1, commi 47 e ss., della l. n. 92 del 2012, non è prevista la lettura del dispositivo in udienza e l’eventuale pronuncia, che comunque vi sia stata, costituisce una mera anticipazione della pubblicazione del dispositivo rispetto alla motivazione, di tal che non è ravvisabile alcuna nullità della sentenza depositata successivamente, entro il termine di dieci giorni dalla data dell’udienza di discussione, di cui al comma 57 del citato art. 1, essendo fatta salva la finalità acceleratoria del rito speciale e non configurandosi alcun pregiudizio del diritto di difesa ai fini dell’impugnazione, i cui termini decorrono dal deposito della motivazione (così Cass., sez. lav., 21 febbraio 2022, n. 5649; id., sez. lav., 16 agosto 2018, n. 20749, la quale ha escluso l’obbligo di lettura del dispositivo in udienza ai sensi dell’art. 437, comma 1, c.p.c.). 11. Pertanto, è da escludere qualsiasi nullità dell’impugnata sentenza in ragione del fatto che la Corte nel giorno fissato per l’udienza sostituita dal deposito telematico di note non abbia letto il dispositivo della sua sentenza o non abbia depositato lo stesso telematicamente. Come già considerato, tanto non è previsto dall’art. 221, comma 4, d.l. n. 34/2020, il quale non ha certamente introdotto un siffatto modello decisorio. 12. Secondo il ricorrente, anche accedendo all’interpretazione nel senso dell’applicabilità dell’art. 1, comma 60, l. n. 92/2012, la sentenza in questa sede impugnata sarebbe comunque nulla per il mancato deposito del dispositivo nel termine di 10 giorni dalla data dell’udienza previsto da detta norma. 13. Ma anche questa deduzione non coglie nel segno. 14. Non è discutibile, infatti, che detto breve termine, al pari di quello, pure di dieci giorni, previsto dal comma 57 dell’art. 1 L. n. 92/2012 per il deposito (non del dispositivo di sentenza, ma) della sentenza, completa di motivazione, destinata a definire la fase di opposizione in primo grado, rivesta sì finalità acceleratoria, ma abbia natura ordinatoria. In difetto, infatti, di espressa previsione legale che dichiari perentorio detto termine, giusta la norma generale di cui all’art. 152, comma secondo, c.p.c., esso dev’essere reputato ordinatorio; né alcuna disposizione di legge commina ex art. 156, comma primo, c.p.c. la nullità della sentenza non depositata entro lo stesso termine. In proposito, vale ricordare che le Sezioni unite di questa Corte avevano insegnato che, in tema di deposito della sentenza completa di motivazione nella cancelleria del giudice che la ha pronunciata (nella specie: da parte di giudice di appello), l’inosservanza, nel processo assoggettato al rito del lavoro, dei termini di cui all’art. 430 c.p.c., cui rimanda l’art. 438, comma primo, c.p.c. (al pari di quelli previsti dall’art. 352, comma primo, c.p.c., per il secondo grado del procedimento ordinario di cognizione), non è causa di nullità della sentenza tardivamente depositata (così Cass., sez. un., 5 marzo 2008, n. 5912). E, siccome tale principio di diritto è stato riferito, come si è visto, anche al deposito della sentenza d’appello nel comune rito di cognizione ordinaria (in cui non è prevista lettura del dispositivo di sentenza in udienza, né, attualmente, è previsto il suo deposito in forma telematica), è da seguire anche nel caso in esame, in cui per la sentenza resa in sede di reclamo l’art. 1, comma 60, ultima parte, non contempla(va) la lettura di dispositivo nell’udienza c.d. cartolare, o il suo deposito contestuale. Per conseguenza, alcuna nullità dell’impugnata sentenza può derivare dal dato che essa, completa di motivazione, sia stata depositata oltre il previsto termine ordinatorio di dieci giorni. 15. Anche il secondo motivo è infondato. 16. A riguardo, giova premettere che la Corte di merito ha disatteso la critica del reclamante, secondo il quale il Tribunale avrebbe errato laddove ha posto a fondamento della propria decisione quanto dichiarato dalla paziente che ha denunciato la violenza sessuale, nonché dalla sua compagna di stanza e dalla figlia di questa agli organi di polizia giudiziaria nell’ambito delle indagini preliminari del procedimento penale aperto a carico del lavoratore, senza acquisire nel processo la prova testimoniale dei medesimi soggetti in contraddittorio fra le parti. In particolare, anche di recente, è stato ribadito che, in mancanza di una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, il giudice civile può legittimamente porre a base del proprio convincimento le prova “atipiche” (tra cui anche le risultanze di atti delle indagini preliminari svolte in sede penale), se idonee ad offrire sufficienti elementi di giudizio e non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze istruttorie, senza che sia configurabile la violazione del principio ex art. 101 c.p.c., dal momento che il contraddittorio sui mezzi istruttori si instaura con la loro produzione nel giudizio civile e la conseguente possibilità per le parti di farne oggetto di valutazione critica e di stimolare la valutazione giudiziale (così, da ultimo, Cass., sez. VI, 1 febbraio 2023, n. 2947). Nell’ambito del medesimo indirizzo, è stato affermato che il giudice civile è legittimato ad avvalersi delle prove raccolte nel processo penale e, segnatamente, delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale e delle dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell’art. 444 c.p.p., potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (in tal senso Cass., sez. III, 21 settembre 2021, n. 25503). Ed è stato specificato che le sommarie informazioni assunte durante la fase delle indagini preliminari, ritualmente acquisite nel contraddittorio delle parti, sono liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell’art. 116 c.p.c., non essendo a tal fine necessario che i dichiaranti abbiano prestato giuramento, in quanto nel sistema processuale manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove c.d. atipiche (così Cass., sez. II, 4 luglio 2019, n. 18025). La Corte di merito ha, quindi, osservato “che il primo giudice ha proceduto ad un attento vaglio delle dichiarazioni rese dagli indicati soggetti alla polizia giudiziaria e riportate nei verbali acquisiti al processo” (richiamando i relativi documenti prodotti dalla Labor, vale a dire, dalla datrice di lavoro, sulla quale incombeva l’onere della prova ex art. 5 L. 604/1966), “evidenziando come da essi si ricavino elementi sufficienti per ricostruire l’intera vicenda che ha portato al licenziamento disciplinare”. Indi, ha rilevato “a conferma di quanto sostenuto dal Tribunale, che nei predetti documenti viene descritta con dovizia di particolari la condotta posta in essere dal A.”, riesaminando anzitutto le dichiarazioni della paziente contenute nel richiamato verbale di P.G., giudicate “attendibili e probanti, sia perché, come indicato già dal primo giudice, coerenti, puntuali e dettagliate, confermative di quelle rese il giorno precedente al dirigente della casa di cura (cfr. doc. 11° fasc. Labor), sia perché rese nell’immediatezza dei fatti e confermate sia al dirigente della struttura che alla P.G., per i punti a diretta conoscenza, dalle altre due persone presenti, che hanno, comunque, assistito al grave disagio avvertito dalla B. per gli atti compiuti dal A., sfociato in una vera e propria richiesta di aiuto”. Rispetto, poi, a quanto specificamente dedotto dal lavoratore nell’ambito del terzo motivo di reclamo, circa “un referto del pronto soccorso, dove si era recata la paziente subito dopo essere stata dimessa dalla casa di cura” (cfr. pag. 2 dell’impugnata sentenza), la Corte d’appello ha considerato che detto certificato del 12 maggio 2017 (cfr. doc. 11b fasc. Labor), pur non avendo evidenziato segni di violenza, riportava le dichiarazioni della paziente, e che esse apparivano veritiere. La Corte d’appello, come il primo giudice, ha ritenuto di “poter dare pieno valore probatorio ai documenti appena sopra indicati, acquisiti al processo nel pieno contraddittorio fra le parti ed in relazione ai quali il reclamante non ha fornito elementi idonei a confutarli”. Inoltre, ha giudicato “del tutto superflui gli ulteriori mezzi di prova indicati dal reclamante nonché l’acquisizione del supporto informatico indicato nell’atto di impugnazione”, spiegando diffusamente perché (cfr. in extenso pag. 7 della sua sentenza); e ha per tal modo disatteso il primo motivo di reclamo, che riguardava l’omessa pronuncia sulla richiesta di acquisizione del cennato supporto informatico (cfr. pag. 2 della stessa sentenza). . Infine, “ad ulteriore conforto di quanto appena indicato”, la Corte di merito ha considerato “che il CTU, dott. C., nominato dal primo giudice proprio al fine di verificare la possibilità che quanto riferito dalla B. potesse essere frutto di allucinazioni provocate dai farmaci somministratile, in seguito ad un attento e particolareggiato studio dei farmaci medesimi, dell’operazione chirurgica subita dalla paziente e delle successiva degenza post operatoria, ha escluso che gli stessi possano aver provocato effetti allucinatori”; anche in questo caso illustrando ampiamente la propria adesione al parere espresso da tale ausiliare tecnico (cfr. pag. 8 della decisione gravata). Ed ha così motivatamente respinto il quarto motivo di reclamo che riguardava appunto la consulenza tecnica d’ufficio già espletata in prime cure (cfr. inizio di pag. 3 dell’impugnata sentenza). Appare di tutta evidenza, allora, che i giudici di secondo grado hanno attribuito pieno valore probatorio, non solo ai verbali delle dichiarazioni delle persone sentite dalla P.G. durante le indagini, ma anche al menzionato certificato di pronto soccorso del 12 maggio 2017, cui la Corte ha attribuito appunto la natura di certificato; in parte comprovante un significativo dettaglio riferito dalla paziente circa la sensazione di dolenzia dalla stessa avvertita durante le “manipolazioni” subite dal ricorrente. La Corte distrettuale, inoltre, ha formato il proprio convincimento anche in base al parere del C.T.U. officiato al precipuo scopo su visto. Secondo il ricorrente le dichiarazioni della paziente non potevano, nemmeno assurgere a “a prova atipica”, in quanto essendo la dichiarante querelante e asseritamente persona offesa dalla presunta condotta illecita del A. “era incapace a testimoniare ex art. 246 c.c., perché indiscutibilmente portatrice di un interesse che la legittimava ad agire nei confronti dell’odierno esponente per il risarcimento del danno, anche partecipando al giudizio”, e tale incapacità era stata per di più eccepita dall’attuale ricorrente “alla prima udienza successiva alla costituzione della Labor nella fase sommaria”. In parte qua, tuttavia, le deduzioni del ricorrente sono inammissibili per essere, per così dire, prive di oggetto. Secondo quanto riferisce lo stesso ricorrente, infatti, la sua difesa all’udienza del 4 aprile 2018 della fase sommaria si era opposta all’escussione della paziente “in quanto soggetto portatore di interesse nel presente giudizio” (cfr. pag. 12 del ricorso); ma risulta dall’impugnata sentenza, oltre ad essere pacifico, che la suddetta non è stata mai sentita quale teste nei due gradi di merito del giudizio civile che ci occupa. Va da sé, allora, che un problema d’incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. della suddetta poteva non può neppure astrattamente porsi. D’altronde, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento (così, tra le più recenti, Cass., sez. II, 22 febbraio 2022, n. 5732). 20. Devesi aggiungere che, in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c., cui pure si riferisce il ricorrente, è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza processuale (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ed una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (così Cass., sez. un., 30 settembre 2020, n. 20867; id., sez. I, 28 giugno 2022, n. 20751). 20.1. Ebbene, il ricorrente nel motivo in esame neppure si riferisce al mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., che d’altro canto, in presenza di c.d. “doppia conforme”, si sarebbe imbattuto nella preclusione di cui ai commi quarto e quinto dell’art. 348 ter c.p.c. 20.2. Per il resto, nello svolgimento della stessa censura (cfr. pagg. 13-25 dell’atto d’impugnazione), il ricorrente esprime una critica all’apprezzamento probatorio operato dalla Corte di merito, critica che ovviamente non può trovare ingresso in questa sede di legittimità. Inoltre, pare dolersi della mancata ammissione della prova testimoniale a mezzo delle sig.re … OMISSIS … sui riportati capitoli di prova articolati nel ricorso introduttivo del giudizio. Come si è visto, però, sulla relativa richiesta la Corte d’appello si è pronunciata, e a riguardo in questa sede il ricorrente in ipotesi avrebbe dovuto riferirsi sempre all’ipotesi di cui al n. 5) del comma primo dell’art. 360 c.p.c., ove non avesse operato la preclusione di cui s’è già detto. 21. Infine, infondati sono anche i rilievi del ricorrente in tema di presunzioni semplici ex artt. 2727 e 2729 c.c. La Corte territoriale, infatti, neppure ha dichiarato di aver operato un ragionamento presuntivo in relazione alle dichiarazioni tutte che ha valutato e a nessuna delle quali ha attribuito valore meramente indiziario. 22. Il ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo. Il ricorrente è inoltre tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto. 23. Infine, in ragione dei dati relativi alla sfera sessuale considerati in questa decisione, dev’essere adottato a riguardo lo specifico provvedimento indicato in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15% e I.V.A e C.P.A. come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi del ricorrente e di persone fisiche terze, a norma dell’art. 52 del D.L.vo n. 196 del 2003, come modificato dal D.L.vo n. 101 del 2018.

/ 5
Grazie per aver votato!

Redazione

AlMablog News è una rivista di cultura e diritto, senza scopo di lucro, accessibile on line gratuitamente (open access), fondata nel 2018, edita e sostenuta da Angelo RUBERTO Avvocato Penalista del Foro di Bologna, nonchè Presidente dell’Associazione “Rete Nazionale Forense”. PARTNER: JuraNews https://juranews.it - ©2018-2024 Tutti i Diritti Riservati. La collaborazione redazionale dei testi è libera ed a titolo gratuito.