PROCESSO RUBY TER: NOTE D’UDIENZA DELLA PROCURA GENERALE CASSAZIONE

Prima premessa: il ricorso della Procura della Repubblica di Milano non ha per oggetto il reato di falsa testimonianza, se non in relazione alla formula assolutoria, né intende confutare – sarebbe del resto questione di fatto, come tale inammissibile in sede di legittimità – l’emersione di indizi di reato nei confronti dei soggetti escussi come testimoni prima che questi assumessero la qualità di testimoni. Seconda premessa, in relazione ad un’argomentazione contenuta in alcune memorie difensive: la mancata impugnazione dell’assoluzione di Silvio BERLUSCONI non ha alcun effetto sulle sorti del presente procedimento. Infatti, non solo non sarebbe stata ammissibile alcuna impugnazione nei confronti del medesimo, in quanto deceduto prima della scadenza del termine per impugnare; ma il passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione di BERLUSCONI perché il fatto non sussiste non può dar luogo a un contrasto di pronunce rilevante ai sensi dell’art. 630 c.p.p., posto che non vi sarebbero, in caso di accoglimento del ricorso e di successiva condanna degli attuali imputati, fatti inconciliabili posti a fondamento delle due sentenze, l’una di assoluzione, l’altra di condanna. Infatti, la difformità dipenderebbe non già da una differente ricostruzione dei fatti, ma da una diversa valutazione giuridica in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 319 ter c.p., come tale estranea ai presupposti della revisione. Fatte queste premesse, appare prioritaria, dal punto di vista logico, la trattazione del secondo motivo di ricorso. Esso concerne infatti la configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari, negata dal Tribunale sulla scorta delle considerazioni contenute nella sentenza delle Sezioni Unite n. 15208/2010, Mills, che ha ritenuto, ”a fronte della mancanza di una previsione che, in analogia a quella di cui all’art. 384, 2° comma, cod. pen., “scrimini” il reato di corruzione in atti giudiziari sulla base della errata attribuzione al teste di tale qualità […] che il giudice possa comunque “autonomamente” apprezzare, ora per allora (e sempre che, naturalmente, egli possa disporre di elementi di fatto idonei a consentirgli un tale giudizio) la corretta qualifica da attribuirsi al “dichiarante”, eventualmente discostandosi anche dalle valutazioni e dalle conclusioni a suo tempo effettuate dal giudice del procedimento in cui tali dichiarazioni furono rese”. Il ricorso sostiene, con diverse argomentazioni, che queste affermazioni costituiscono un obiter dictum e che una decisione difforme potrebbe essere adottata senza investire nuovamente le Sezioni Unite. Effettivamente, le Sezioni Unite non hanno sul punto, espressamente enunciato un principio di diritto, in quanto la questione di diritto sottoposta al suo esame era un’altra, e cioè la configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari anche nella forma della corruzione susseguente (questione risolta positivamente, ma in questo processo non rilevante). Ciò non toglie, però, che – contrariamente a quanto prospettato nel ricorso – la sentenza in esame abbia preso posizione sul punto, pur non definendo con chiarezza i presupposti teorici delle proprie conclusioni. Invero, il punto di partenza del ragionamento delle Sezioni Unite è stata la previsione dell’art. 384 comma 2 c.p., che, secondo una “autorevole dottrina” (principalmente Vassalli) dà luogo a un difetto di tipicità del fatto, giacché “quando il dichiarante non ha legittimamente acquisito la qualifica di teste, il delitto di falsa testimonianza, che è un reato proprio, non sussiste”. Peraltro, subito dopo, la sentenza ha dato atto che la giurisprudenza non ha espressamente configurato tale disposizione come una espressione di mancanza di tipicità del fatto-reato, ma ha chiaramente distinto l’ambito di operatività di tale previsione rispetto a quello regolato dal 1° comma dello stesso art. 384, sottolineando che “non integra il reato di falsa testimonianza la dichiarazione non veritiera resa da persona che non possa essere sentita come testimone” a nulla rilevando le finalità e i motivi che l’abbiano indotta a dichiarare il falso” [così Cass., Sez. Unite, 29 novembre 2007, n. 7208/08, Genovese]. In ogni caso, la sentenza Mills si è poi diffusa sulla ricerca dell’esatta individuazione dei confini assegnati al potere del giudice in ordine alla qualifica soggettiva da attribuire al dichiarante ed ha infine esaminato in concreto le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale in ordine all’assenza di connessione tra i procedimenti nei confronti di Mills e quelli in cui lo stesso era stato chiamato a testimoniare, concludendo che le motivazioni erano logiche e razionali ed integravano “accertamento in punto di fatto che, a fronte della congrua motivazione da parte del giudice di merito, è sottratto al sindacato di legittimità”. Si può quindi concludere che la sentenza Mills ha effettivamente attribuito rilevanza alla erronea attribuzione al teste di tale qualità, ritenendo che la punibilità vada esclusa, non tanto per una applicazione analogica della causa di non punibilità di cui all’art. 384 comma 2 c.p., quanto per un difetto di tipicità della fattispecie, una volta esclusa ex post la qualifica di testimone, e dunque di pubblico ufficiale. Preso atto di questa posizione, occorre però approfondire il tema e domandarsi se tali conclusioni siano condivisibili. Il diritto positivo prevede, all’art. 384 comma 2 c.p., quella che la stessa disposizione definisce testualmente una causa di esclusione della punibilità: per colui che ha posto in essere una condotta di false dichiarazioni, nelle diverse ipotesi di cui agli artt. 371 bis, 371 ter, 372 e 373 c.p., la punibilità è esclusa se il dichiarante non avrebbe dovuto essere sentito in quella veste o essere obbligato a rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astensione. La ratio della norma è chiara: qualora l’ordinamento riconosca ad un soggetto la facoltà di non rendere dichiarazioni – per qualsiasi ragione – la violazione di questo diritto comporta l’inesigibilità di un comportamento conforme alla legge, cioè quello di riferire veridicamente i fatti di cui si è a conoscenza. La falsità delle dichiarazioni rimane ovviamente tale (altrimenti non saprebbe neppure astrattamente ipotizzabile il reato), ma la condizione soggettiva del dichiarante, che non è quella prevista dalla legge affinché vi sia l’obbligo di rendere dichiarazioni veritiere, determina la non punibilità del dichiarante stesso. In dottrina si discute se questa situazione escluda la tipicità del fatto o costituisca una causa di esclusione soggettiva della colpevolezza. Però la giurisprudenza che si è occupata della causa di non punibilità di cui all’art. 384 comma 2 c.p., anche successivamente alla sentenza Mills, risulta orientata tutta in questa seconda direzione, diversamente dalla sentenza MIlls; non vi sono, in verità, molte pronunce, ma esse sono pertinentemente richiamate nel ricorso. La sentenza di Cass. Sez. 5^ n. 21913/2012, Bonvicini, ha affermato che “è punibile, ai sensi del comma primo dell’art. 111 cod. pen., chi ha determinato alla commissione del delitto una persona che, per essere stata richiesta di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunta come teste, si trovi nella condizione prevista dall’art. 384, comma secondo, cod. pen.”. In motivazione la sentenza ha osservato che “al di là delle ricostruzione dommatiche delle fattispecie disciplinate dall’art. 384, comma secondo, cod. pen., l’interprete- giudice deve innanzitutto considerare che il legislatore nel predetto articolo ha espressamente previsto determinati “casi di non punibilità” e che la disciplina del concorso di persone nel reato, all’art. 111 cod. pen., accanto all’ipotesi della persona non imputabile, prende in esame anche quello della persona “non punibile a cagione di una di una condizione o qualità personale”. Orbene, non sussiste alcun elemento normativo che impedisca di prendere in considerazione, nell’ipotesi di concorso di persone nel reato, la situazione di chi ha determinato alla commissione del delitto una persona che, per essere stata richiesta di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunta come teste, si trovi nella condizione prevista dall’art. 384, comma secondo, cod. pen., condizione che ovviamente non può che qualificarsi come “personale”. È ben evidente li particolare disvalore che il legislatore, nella disciplina del concorso di persone nel reato, ha inteso assegnare alla condotta del determinatore, al punto da avvertire la necessità di specificare, ad evitare ogni dubbio, che del reato commesso dalla persona determinata, autore del fatto tipico, non punibile a cagione di condizioni o qualità personali, non soltanto risponde il determinatore, ma “la pena è aumentata”. Analogamente, “rispetto ad una testimonianza di persona che non avrebbe potuto essere obbligata a rispondere, la scriminante prevista dal comma secondo dell’art. 384 cod. pen. opera nei confronti del solo delitto di falsa testimonianza ma non di quello di calunnia” (Cass. Sez. 6^ n. 12600/2013, Gullotta; conforme, Sez. 6^ n. 10290/2014, Fortunato). Si tratta di decisioni che, nel considerare la causa di non punibilità come attinente alle condizioni personali dell’autore diretto del reato, confortano la tesi della impossibilità di estendere l’applicabilità della disposizione di cui all’art. 384 comma 2 c.p. al reato di corruzione in atti giudiziari. E si noti che, mentre l’istigazione alla falsa testimonianza e la calunnia sono integrate, sotto il profilo oggettivo, dalla medesima condotta materiale, cioè le false dichiarazioni, queste invece, nella corruzione in atti giudiziari, sono soltanto strumentali rispetto alla condotta costitutiva del reato, che consta essenzialmente dell’accordo corruttivo finalizzato a favorire o danneggiare una parte processuale. Dunque, a maggior ragione appare ingiustificata l’estensione della causa di non punibilità ad un reato che presenta, rispetto alle false dichiarazioni, aspetti solo marginalmente coincidenti. Il potere di valutare, ora per allora, la corretta qualifica da attribuirsi al dichiarante, certamente da esercitare per il reato di falsa testimonianza, nonché per i reati di cui agli artt. 371 bis, 371 ter e 373, per i quali è espressamente prevista la causa di non punibilità di cui all’art. 384 comma 2 c.p., non è contemplato in relazione ad altri reati. Questo è un dato di fatto irrefutabile: il legislatore ha inteso prevedere una causa di non punibilità soltanto in relazione ai reati nei quali la condotta consiste esclusivamente nel rendere dichiarazioni false. Il reato di cui oggi si discute è ben diverso, come si è già osservato, anche se si interseca con la falsa testimonianza: è la corruzione del pubblico ufficiale – nella specie, il testimone – affinché compia un atto contrario ai doveri d’ufficio – la falsa testimonianza – al fine di favorire una parte – l’imputato Berlusconi – in un processo penale. La tesi del Tribunale è che, essendo tutte le attuali imputate già raggiunte da indizi di reato prima di essere escusse come testimoni, non hanno mai assunto la qualità di testimone e quindi di pubblico ufficiale, cosicché è venuto a mancare uno degli elementi costitutivi del delitto di corruzione in atti giudiziari. Infatti, poiché il testimone non doveva essere sentito in tale qualità, non ha assunto la veste di pubblico ufficiale e di conseguenza viene meno un elemento costitutivo del reato, essendo pacifico che una delle parti dell’accordo corruttivo debba essere pubblico ufficiale, cosicché rimane esclusa la tipicità della fattispecie. Tale impostazione non appare condivisibile. I requisiti formali della testimonianza risultano infatti tutti sussistenti: ammissione dei testi, citazione degli stessi, dichiarazioni rese previo impegno a dire la verità. La valutazione, successivamente intervenuta, della erroneità dell’audizione in qualità di testimoni degli attuali imputati non determina l’inesistenza giuridica della qualificazione come testimoni di soggetti che non erano nelle condizioni per acquisire tale qualità, né l’inesistenza giuridica dell’atto compiuto, cioè la testimonianza. Invero, come illustrato con grande chiarezza, dalla sentenza di Sez. 6^ n. 3683/2000, est. Milo, “la categoria della inesistenza giuridica – estranea alle cause di invalidità degli atti disciplinati dal codice e costituente la risultante di una mera operazione interpretativa – è configurabile in tutti quei casi in cui l’atto, per difetto di alcuni elementi strutturali che devono contraddistinguerlo, si pone totalmente fuori dal sistema, non è ad esso riferibile, e non è riconoscibile all’esterno, nel senso che è assolutamente inidoneo a produrre un qualsiasi effetto sia nell’ambito che al di fuori del processo. Essa è tale da superare il principio di tassatività, che contraddistingue le nullità, e da scavalcare la stessa barriera del giudicato”. Nel caso di specie, siamo certamente al di fuori di una siffatta situazione, ricorrendo invece una illegittimità dell’atto di investitura dello status di testimone che ha le sole conseguenze previste dalla legge, che sono, da un lato, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, dall’altro, la non punibilità – per i soli testimoni – ex art. 384 comma 2 c.p. Del resto, se tale causa di non punibilità non fosse esclusivamente soggettiva e si risolvesse in un difetto di tipicità, non vi sarebbe stata ragione di inserire un’apposita disposizione. Dunque, si può affermare che l’illegittima ammissione ed escussione dei testimoni dà luogo a un’ipotesi che è stata oggetto di numerose pronunce della Suprema Corte: quella dell’esercizio di fatto di pubbliche funzioni. Da tempi ormai remoti, la giurisprudenza ha affermato il principio che “agli effetti della legge penale, il funzionario di fatto è equiparato al pubblico ufficiale: è necessario e sufficiente a tal fine che da parte del soggetto vi sia effettivo esercizio di una pubblica funzione senza una formale o regolare investitura, e che a tale effettivo esercizio si accompagni quantomeno l’acquiescenza o la tolleranza o il consenso anche tacito della pubblica amministrazione” (Sez. 6^ n. 406/1991, Susco). Successive pronunce hanno delineato in modo più puntuale il concetto: “in tema di delitti contro la pubblica amministrazione, l’art. 357 cod. pen., come sostituito dagli artt. 17 legge 26.4.1990 n. 86 e 4 legge 2.2.1992 n. 181, ricollega esplicitamente la qualifica di pubblico ufficiale non tanto al rapporto di dipendenza tra il soggetto e la pubblica amministrazione, ma ai caratteri propri dell’attività in concreto esercitata dal soggetto agente ed oggettivamente considerata. Di questa devono essere presi in esame i singoli momenti in cui essa si attua, disgiuntamente previsti dal legislatore nel secondo comma della norma citata, con riferimento all’esistenza di un contributo determinante dell’agente alla formazione ed alla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione, all’esistenza di poteri autoritativi o certificativi” (Sez. 6^ n. 6980/1995, Seri). Ancora con maggiore precisione, Sez. 6^, n. 12175/2005, Tarricone, ha osservato in motivazione che “l’invalidità dell’atto di investitura non rende invalidi gli atti compiuti nell’esercizio della funzione. Una irregolare investitura non esclude, ai fini della configurazione della concussione, la qualità soggettiva di pubblico ufficiale, cui deve essere collegato l’abuso della qualità o dei poteri inerenti alla funzione esercitata. A diversa conclusione non si perviene anche qualora si volesse aderire all’ipotesi di esercizio di fatto delle pubbliche funzioni, poiché tale oggettiva situazione vale a riconoscere, in ogni caso, la relativa qualifica al soggetto agente. L’art. 357 cp richiede, ai fini della sussistenza della relativa qualità, l’oggettivo esercizio delle pubbliche funzioni, indipendentemente da una regolare investitura”. Tale decisione ha richiamato S.U. n. 7958/1992, Delogu, secondo cui “ai sensi dell’art. 357 cod. pen., come novellato dalle leggi n. 86 del 1990 e n. 181 del 1992, la qualifica di pubblico ufficiale deve essere riconosciuta a quei soggetti che, pubblici dipendenti o semplici privati, quale che sia la loro posizione soggettiva, possono e debbono, nell’ambito di una potestà regolata dal diritto pubblico, formare e manifestare la volontà della pubblica amministrazione oppure esercitare, indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente considerati”. Passando ai casi concreti, sono stati ritenuti responsabili del reato di peculato “il tesoriere di un Comune, il cui incarico sia divenuto all’epoca dei fatti illegittimo in base alla nuova normativa in materia di tesoreria unica, che si sia appropriato delle somme appartenenti al predetto ente pubblico, laddove sia provato il consenso della pubblica amministrazione alla continuazione del precedente incarico” (Sez. 6^ n. 26693/20023, D’Alessio), nonché “il coadiutore dell’esattore concessionario del servizio di tesoreria di un ente territoriale, ancorché non formalmente investito della pubblica funzione ed in quanto funzionario di fatto” (Sez. 6^ n. 28125/2010, Forte). Conclusivamente, seppure l’audizione delle attuali imputate in qualità di testimoni sia stata illegittima in quanto esse erano già raggiunte da indizi di reato, ciò non incide sulla sussistenza del reato di corruzione in atti giudiziari, che rimane configurabile in quanto le funzioni di pubblico ufficiale sono state concretamente esercitate. Tali conclusioni valgono ovviamente anche per gli imputati GIULIANTE Luca, al quale è contestato il reato di corruzione attiva quale intermediario e concorrente di Silvio BERLUSCONI, e RISSO Luca, al quale è contestato il reato di riciclaggio dei compensi corruttivi ricevuti da Karima EL MAHROUG. Il primo motivo di ricorso, che attiene al momento dell’assunzione della qualità di testimone e dunque di pubblico ufficiale, è certamente fondato e potrà avere rilevanza nel caso di un nuovo giudizio di merito. Non può esservi alcun dubbio sul fatto che, nel momento in cui il giudice emette l’ordinanza di ammissione delle prove, i soggetti ammessi a deporre acquisiscono la qualità di testimone, poiché vi è un atto formale del giudice che ha sicuramente efficacia costitutiva. Il riferimento, contenuto in molte pronunce di legittimità, all’autorizzazione alla citazione dei testimoni quale atto in seguito al quale si assume la veste di testimone è correlato all’ipotesi ordinaria del codice di cui all’art. 468 comma 2 c.p.p., allorquando il presidente autorizza la citazione dei testi indicati nelle liste testimoniali, non all’autorizzazione successiva all’ammissione delle prove. È evidente l’esattezza dei rilievi contenuti nel ricorso in merito all’equivoco in cui è incorso il Tribunale nell’interpretare le sentenze della Corte di Cassazione. Già la lettura della motivazione della sentenza delle Sezioni Unite n. 37503/2002, Vanone, fuga ogni possibile dubbio: “la qualità di “persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria” (che, a decorrere dal D.L. n. 306/1992, ha sostituito il termine “testimone” quale destinatario dell’offerta o della promessa subornatrice) si assume – nel processo che si svolga davanti al tribunale non con “citazione diretta” a giudizio – all’esito dell’autorizzazione del giudice alla citazione quale testimone, ai sensi del 2° comma dell’art. 468 c.p.p. (salvi i casi eccezionali di cui agli artt. 493, 2° comma, e 507 c.p.p.). Il deposito della lista testimoniale, previsto dall’art. 468 c.p.p., costituisce un momento essenziale della fase predibattimentale, rivolto a garantire l’effettività e la correttezza del contraddittorio, evitando l’introduzione di prove c.d. “a sorpresa” e – in seguito all’indicazione nella lista testimoniale ritualmente depositata ed alla autorizzazione della citazione da parte del giudice – l’escussione del teste non è più rimessa esclusivamente alla volontà della parte che l’ha richiesta, tant’è che l’eventuale successiva rinuncia ad essa fa salvo il diritto delle altre parti di procedere all’esame e comunque vincola il giudice a motivare in modo esplicito sulla non assunzione della prova, in ossequio al principio contenuto nel 4° comma dell’art. 495 c.p.p. Non è necessario, invece, che sia intervenuta la citazione prevista dall’art. 142 delle disposizioni di attuazione (D. Lgs. n. 271/1989), allorché si consideri che i testimoni indicati nelle liste ed ammessi “possono anche essere presentati direttamente al dibattimento”, a norma del 3° comma dell’art. 468 c.p.p., e che nell’ipotesi in cui, a seguito del decreto di autorizzazione emesso ai sensi del 2° comma dell’art.468 c.p.p., il teste non risulti citato, il giudice non può per ciò soltanto revocare la prova ammessa, a meno che essa non si riveli superflua secondo quanto prevede il 4° comma dell’art. 495 c.p.p. (vedi Cass., Sez. V, 12.5.2000, n. 5603)”. È poi sufficiente leggere le motivazioni di altre sentenze (ad esempio Sez. 1^ n. 15542/2001, Pelini; Sez. 6^ n. 44896/2019) per comprendere che la Corte di Cassazione ha sempre ritenuto che la qualifica di testimone (e dunque di pubblico ufficiale) si acquisisce al momento in cui il giudice dispone l’ammissione della testimonianza; qualora vi sia stata una preventiva autorizzazione alla citazione, questa anticipa l’assunzione della qualità di testimone. Conclusivamente, i testimoni hanno assunto formalmente tale qualità il 23.11.2011, data dell’ordinanza di ammissione delle prove nel processo cosiddetto Ruby1. CONCLUSIONI In relazione a tutte le imputazioni di corruzione in atti giudiziari e per quella di riciclaggio ascritta al RISSO: annullamento con rinvio. In relazione a tutte le imputazioni di falsa testimonianza: annullamento senza rinvio perché il fatto non è punibile ai sensi dell’art. 384 comma 2 c.p. Con riferimento a quest’ultima richiesta, è noto che, secondo costante giurisprudenza, l’interesse ad impugnare, anche del pubblico ministero, non può risolversi in una pretesa, meramente teorica e formale, all’esattezza giuridica della decisione, senza riflessi in punto di utilità concreta, dovendo l’impugnazione essere sempre diretta al conseguimento di un risultato favorevole, che sia anche indirettamente utile al proponente. Tuttavia, nel caso di specie, poiché da un lato si tratterebbe di un semplice annullamento senza rinvio adottando una diversa formula assolutoria, dall’altro il reato di falsa testimonianza è strettamente connesso ai reati di corruzione in atti giudiziari e riciclaggio per i quali si richiede invece l’annullamento con rinvio, si ritiene sussistente l’interesse ad ottenere una diversa formula assolutoria al fine di evitare contraddizioni interne alla medesima vicenda giudiziaria. Roma 5 giugno 2024 Il Procuratore Generale Roberto ANIELLO sost.

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