
Nel giro di pochi giorni abbiamo registrato, sul tema del vaglio disciplinare nei confronti dei magistrati, alcune notizie e prese di posizione che suggeriscono di mettere un po’ d’ordine. Nordio, rispondendo ad una interrogazione parlamentare sulla vicenda Pifferi, ha concluso per l’assoluta linearità dell’operato del PM che ha avviato un’indagine sul difensore dell’imputata, a processo in corso. Anche l’aver agito senza informare il coassegnatario del fascicolo, condotta rilevante ai fini disciplinari, non lo sarebbe in concreto, difettando il requisito dell’abitualità e della gravità. A Milano, in Procura, non è accaduto nulla… Negli stessi giorni, invece, apprendiamo che la posizione del Ministro non è altrettanto benevola nei confronti dei tre giudici della Corte d’Appello di Milano, “colpevoli” di avere disposto una misura cautelare troppo mite (gli arresti domiciliari con l’impiego del “braccialetto elettronico”) nei confronti di Artem Uss. D’un tratto, il moto di comprensione del ministro si trasforma in zelo accusatorio e, nonostante il diverso avviso della Procura Generale, viene esercitata l’azione disciplinare: il prudente esercizio della giurisdizione cautelare non piace. Ancora una volta, non ci pare un caso questa geometria variabile: non vanno tollerati approcci di garanzia e insubordinazioni alle prospettazioni dell’Accusa. Sono vicende su cui ci siamo già espressi. Dunque, nonostante le evoluzioni di quelle vicende, preoccupanti ma purtroppo non inattese, avremmo potuto rimanere in silenzio e rimandare ai nostri precedenti comunicati. Ciò, se non avessimo letto il documento pubblicato da un’autorevole corrente della magistratura associata che, nel manifestare la propria preoccupazione per l’iniziativa del Ministro nei confronti dei tre giudici, parla di “prove generali per l’alta Corte disciplinare”. Viene, così, da rimettere i puntini in cima alle i. L’Alta Corte disciplinare, che peraltro è allo stato di semplice proposta costituzionale, è una risposta alle pecche della giurisdizione disciplinare domestica, che – sebbene rivendicata come spietata da un punto di vista meramente numerico – opera con indulgenza in alcuni casi e con rigidità assoluta in altri. E forse a questi diversi approcci non sono estranee dinamiche correntizie che attraversano le carriere e interferiscono con una decisione davvero “distante” dall’incolpato. E d’altronde dal 2011 anche gli ordini professionali, quello degli avvocati incluso, hanno separato dalla propria struttura e allontanato alla giusta distanza la giurisdizione disciplinare, oggi nelle mani di consigli di disciplina ordinamentalmente diversi dalla rappresentanza istituzionale. Quale lo scandalo dunque in questo tipo di separazione? È inutile, dunque, evocare scenari foschi. Non solo perché la struttura dell’Alta Corte immaginata nel disegno di legge di riforma prevede una (schiacciante) maggioranza della componente togata al suo interno, ma ancor prima perché sono gli scenari attuali e passati ad essere preoccupanti. Per noi le cose sono chiare: l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati sono valori imprescindibili e vanno difesi da ingerenze indebite e da interventi, come quello concernente il caso Uss (ma non solo), che stravolgono le dinamiche processuali. Non a caso e senza posizioni strumentali, dunque, l’avvocatura penale è intervenuta, in molte occasioni e spesso nel silenzio della stessa magistratura associata, a difendere quei valori. Ci è altrettanto chiaro, però, che le garanzie individuali e il diritto di difesa sono quotidianamente messi in discussione e che, né noi né i nostri assistiti, abbiamo scudi o protezioni corporative rispetto alle forzature e agli stravolgimenti che – gli episodi delle ultime settimane lo confermano – provengono da chi esercita il delicatissimo potere d’accusa. Abbiamo solo la determinazione di chi, per vocazione e per status, è chiamato tutti i giorni a difendere i diritti di chi è assoggettato alla forza dello Stato.
Milano, 13 giugno 2024
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