Pronuncia della Cassazione sulla rilevanza dei “like” su Facebook, nel reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, in ordine a quanto stabilito in sentenza, prima sez. penale del 06/12/2021, n. 4534. Commette reato di propaganda e istigazione a delinquere, per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, di cui all’art. 604 bis del codice penale, chi divulga idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, oppure istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi o, ancora, chi istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per gli stessi motivi. È, peraltro, vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo, avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La Corte di Cassazione, di recente si è occupata di un caso relativo ad un utente di alcuni noti social network, quali Facebook, VKontacte e Whatsapp, il quale attraverso una serie di account a lui riconducibili, ha contribuito a diffondere per il tramite di un indice di gradimento, ossia i “like”, idee discriminatorie – fondate sulla diversità intesa come una pretesa superiorità razziale o determinata da odio etnico – espresse attraverso una vera e propria comunità virtuale, caratterizzata da una vocazione ideologica di “estrema destra” (come la definisce Cassazione), neonazista, negazionista e antisemita, avente tra gli scopi proprio la propaganda e l’incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi. Il caso Un monitoraggio effettuato su tre distinte piattaforme social, quali Facebook, VKontacte e Whatsapp, ha disvelato l’esistenza di una comunità virtuale caratterizzata da una vocazione ideologica di estrema destra neonazista, negazionista e antisemita, avente tra i propri scopi la propaganda e l’incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi. Dalla medesima attività investigativa, è emerso che l’imputato del caso preso in esame, aderiva alla citata comunità virtuale non solo attraverso l’uso di account a lui riconducibili, mediante i quali rilanciava taluni “post” dal contenuto negazionista e antisemita con l’inserimento dei cosiddetti “like”, ma anche incontrando personalmente alcuni dei principali esponenti. Pertanto, il Tribunale di Roma, adito ai sensi dell’art. 309 c.p.p. confermava l’ordinanza con cui il GIP aveva applicato all’imputato la misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria in ordine al reato ex art. 604 bis co. 2 del codice penale (capo 1). Tuttavia, avverso la medesima ordinanza, proponeva ricorso l’utente per il tramite del suo legale, il quale eccepiva un vizio di motivazione in merito alla ricorrenza della fattispecie delittuosa di cui all’art. 604 bis c.p. e, secondo cui, l’utente suo assistito, avrebbe lasciato sui social soli tre “like”, i quali non sarebbero dimostrativi né dell’appartenenza alla comunità virtuale, né della condivisione degli scopi illeciti, ma al più potrebbero costituire un’espressione di gradimento. Secondo la Cassazione, invece, il Tribunale del riesame avrebbe logicamente desunto l’appartenenza dell’utente, alla comunità virtuale, avente gli scopi previsti dalla norma incriminatrice, ed integrative delle condotte di propaganda e istigazione all’odio: dai rapporti di frequentazione, personali e ripetuti, che l’imputato intratteneva con altri utenti; dalle plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi, confluiti sulle bacheche presenti nelle piattaforme sopracitate quali, Facebook, VKontacte e Whatsapp, dal contenuto chiaramente negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza; dalla pluralità di social network utilizzati, cui la Cassazione ha attribuito rilevanza penale, ai fini della configurazione della fattispecie delittuosa, e dalle modalità di funzionamento di uno di questi, Facebook, incentrate su un algoritmo che attribuisce rilievo anche alle forme di gradimento, ossia ai cosiddetti “like”, espressi dall’imputato-ricorrente e che hanno indotto il Tribunale a considerare concreto il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone. Tutto ciò sarebbe integrativo tanto delle condotte di propaganda, quanto dell’incitamento all’odio, quale scopo illecito perseguito dal gruppo; dalle dichiarazioni dei giudici della cautela, i quali hanno precisato che la diffusione dei messaggi inseriti sulle bacheche di Facebook, dipende dalla maggiore interazione con le pagine interessate, da parte degli utenti. Sono esattamente le interazioni che consentono la visibilità del messaggio ad un numero maggiore di utenti i quali, a loro volta, hanno la possibilità di riproporne il contenuto. L’algoritmo scelto dal social network in esame, ossia Facebook, per regolare tale sistema assegna, infatti, un valore maggiore ai post che ricevono un numero elevato di commenti o che sono contrassegnati dal “mi piace”. Pertanto, alla luce di quanto esposto, la prima sez. penale della Cassazione, ritenuto il ricorso dell’imputato manifestamente infondato, lo ha dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e, in relazione ai profili di colpa nella proposizione di tale impugnazione, ha condannato l’imputato al versamento di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende. Cassazione, prima sez. penale del 06/12/2021, n. 4534. (A cura della Dott.ssa Luigina Amodeo, Prat. Avv. presso lo Studio Legale Associato Boderone & Condò, di Paola.)
– / 5
Grazie per aver votato!