CONSULENTE DEL PUBBLICO MINISTERO: La terza sezione penale della Corte di Cassazione, ha affermato che «le conclusioni tratte dal consulente del PM, che non solo non risultano contrastate con rilievi precisi e circostanziati svolti dalla perizia prodotta dalla difesa, che era onere del ricorrente indicare specificamente, ma che comunque, pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa». «Come condivisibilmente affermato da un precedente arresto di questa Corte – si legge nella pronuncia – non può prescindersi dal ruolo precipuo rivestito dall’organo dell’accusa e dal suo diritto/dovere di ricercare anche le prove a favore dell’indagato, come stabilito dall’art. 358 c.p.p.: se è vero che il consulente viene nominato ed opera sulla base di una scelta sostanzialmente insindacabile del pubblico ministero, in assenza di contraddittorio e soprattutto in assenza di terzietà, è tuttavia altrettanto vero che il pubblico ministero ha per proprio obiettivo quello della ricerca della verità – concretamente raggiungibile attraverso una indagine completa in fatto e corredata da indicazioni tecnico scientifiche espressive di competenza e imparzialità – dovendosi necessariamente ritenere che il consulente dallo stesso nominato operi in sintonia con tali indicazioni». La Corte prosegue osservando che «è del resto dallo stesso ruolo di ausiliario dell’organo che lo ha nominato che discende la qualifica di pubblico ufficiale del consulente nominato dal PM nel corso delle indagini preliminari, il cui elaborato, pur non potendo essere equiparato alla perizia disposta dal giudice del dibattimento, è pur sempre il frutto di un’attività di natura giurisdizionale che perciò non corrisponde appieno a quella del consulente tecnico della parte privata. Gli esiti degli accertamenti e delle valutazioni del consulente nominato ai sensi dell’art. 359 codice di procedura penale rivestono perciò, proprio in ragione della funzione ricoperta dal Pubblico Ministero che, sia pur nell’ambito della dialettica processuale, non è portatore di interessi di parte, una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio: (Cfr. Cassazione Penale, Sez. III, 29 maggio 2020 (ud. 18 febbraio 2020), n. 16458)
RAVVEDIMENTO OPEROSO: Il ravvedimento operoso deve intervenire prima che l’autore del reato abbia formale conoscenza delle attività e dei procedimenti appena menzionati e, pertanto, non rientrano nell’ambito applicativo della norma i pagamenti effettuati a seguito di speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento che presuppongono l’accertamento della pretesa tributaria, i quali possono esclusivamente rilevare ai fini della applicazione della speciale circostanza attenuante con una riduzione di pena fino alla metà. La Corte di Appello confermava integralmente la sentenza di primo grado di giudizio con cui il Tribunale condannava l’imputato ritenendolo responsabile del reato di cui all’art. 4 decreto legislativo n. 74 del 2000 (dichiarazione infedele) per aver indicato nella dichiarazione dei redditi relativa ad un determinato anno di imposta, al fine di evadere la relativa imposta, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, costituito dalla somma superiore al 10% rispetto a quella indicata in dichiarazione. Avverso la sentenza della corte d’appello l’imputato proponeva ricorso per cassazione articolando diversi motivi di doglianza tra cui violazione di legge riferita all’art. 13 decreto legislativo 74 del 2000 in punto di mancato riconoscimento della causa di non punibilità in presenza dell’integrale pagamento del debito tributario completato dall’imputato, in conformità al piano di rateizzazione concordato con l’Agenzia delle Entrate. La speciale causa di non punibilità invocata dalla difesa risulta disciplinata dall’art. 13 decreto legislativo n. 74 del 2000, come modificato dall’art. 11, comma 1 d.lgs. n. 158 del 24 settembre 2015, : “I reati di cui agli articoli 2, 3, 4 e 5 non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali” Il ravvedimento operoso, al quale la norma subordina l’applicazione della causa di non punibilità per il delitto di cui all’art. 4, decreto legislativo n. 74 del 2000, deve quindi intervenire prima che l’autore del reato abbia formale conoscenza delle attività e dei procedimenti appena menzionati e, pertanto, non rientrano nell’ambito applicativo della norma i pagamenti effettuati a seguito di speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento che presuppongono l’accertamento della pretesa tributaria, i quali possono esclusivamente rilevare ai fini della applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 13 bis, comma 1, del medesimo legislativo, con una riduzione di pena fino alla metà.( Cfr. Cass., Sez. Feriale, 27 agosto 2020, n. 24589)
PARERE DI CONGRUITA’ SULLA PARCELLA RILASCIATO DAL COA: Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma con una nota, sollevava una questione, che sottolineava l’indirizzo interpretativo consolidatosi presso il Tribunale della Capitale secondo cui i ricorsi per decreto ingiuntivo presentati per la liquidazione dei compensi legali vengono rigettati nonostante siano corredati da prova documentata dell’attività svolta e dal parere di congruità emesso dal compente Consiglio dell’Ordine. Tale soluzione discende dall’assunto secondo cui l’art. 636 c.p.c. (per il quale la domanda azionata in via monitoria deve essere accompagnata dal parere di congruità dell’associazione professionale al quale il giudice deve poi attenersi) sarebbe una disposizione ancorata al sistema tariffario e dunque non più operante a seguito dell’abolizione del medesimo da parte della legge n. 27 del 2012. La nota del COA, evidenziando come tale orientamento risulti isolato e non condivisibile, auspica dunque un intervento della Procura Generale per la formulazione di un’istanza alla Corte di Cassazione che consenta di assicurare uniformità interpretativa sul tema. Svolta apposita istruttoria sul tema ed analizzate le diverse impostazioni interpretative, la Procura Generale ritiene che l’avvocato che non abbia ottenuto dal cliente il pagamento del compenso e non passa avvalersi di un preventivo accordo scritto, può agire con il procedimento monitorio di cui agli artt. 633 e 636 c.p.c. e richiedere dunque l’emanazione di un decreto ingiuntivo che sia basato sulla parcella corredata dal parere di congruità del COA. Non ritiene infatti la Procura che la l. n. 27/2012 abbia inciso sugli strumenti processuali previsti dall’ordinamento per la tutela dell’avvocato, né che abbia comportato l’ablazione della possibilità di avvalersi del parere del COA al fine di chiedere un decreto ingiuntivo. La Procura Generale della Corte di Cassazione, ha inviato al Primo Presidente la richiesta di enunciazione dei seguenti principi di diritto: – «l’abrogazione del sistema delle tariffe professionali per gli avvocati, disposta dal decreto legge n. 1 del 2012, convertito dalla legge n. 27 del 2012, non ha determinato, in base al disposto del suo art. 9, l’abrogazione dell’art. 636 c.p.c.»; – «la persistente vigenza dell’art. 636 c.p.c. consente all’avvocato di agire per la richiesta dei compensi per prestazioni professionali con la richiesta di decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 633, comma 1, n. 2, c.p.c., sulla base della parcella e del parere di congruità rilasciato dal competente Consiglio dell’Ordire reso, a partire dall’abolizione del sistema tariffario disposto con la legge n. 27 del 2012, alla luce del sistema dei parametri per i compensi professionali di cui alla legge n. 247 del 2012 e ai relativi decreti ministeriali attuativi». (Legge 24 marzo 2012, n. 27 Conversione, con modificazioni, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1: Misure urgenti in materia di concorrenza, liberalizzazioni e infrastrutture – Legge 31 dicembre 2012, n. 247, recante Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, entrata in vigore il 2 febbraio 2013)
OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO: Le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 19596 depositata il 18 settembre 2020, hanno statuito che l’onere di attivare il procedimento di mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo sia a carico del creditore opposto, ribaltando in questo modo la precedente giurisprudenza secondo la quale l’onere della mediazione gravava sul debitore ingiunto che agiva in opposizione con conseguente improcedibilità dell’opposizione ed irrevocabilità del decreto ingiuntivo in caso di omessa mediazione. PRINCIPIO DI DIRITTO: «Nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi dell’art. 5, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 28 del 2010, i cui giudizi vengano introdotti con un decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1-bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo». (Cfr. Cass. Civ. SU 19596 del 18.09.2020). Tale statuizione procede in senso diametralmente opposto rispetto alla sentenza 24629 del 2015, della Terza Sezione Civile della Cassazione, che aveva affermato “poiché è l’opponente il soggetto interessato alla proposizione del giudizio di cognizione è su di lui che deve gravare l’onere di avviare la procedura di mediazione”.