In tema di reati contro la pubblica amministrazione, la VI Sezione della Corte di Cassazione – sentenza n. 45184 del 6 novembre 2019 ( udienza del 19.09.2019) – è tornata ad occuparsi del rapporto tra corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) a seguito delle modifiche apportate alle disposizioni dalla cd. Legge Severino (Legge 6 novembre 2012, n. 190).
I giudici della VI sezione si sono uniformati al proprio pregresso all’orientamento – Sez. VI, 29 gennaio 2019 (ud. 11 dicembre 2018), n. 4486 – secondo cui a seguito della riformulazione operata dalla Legge 6 novembre 2012, n. 190 (Legge Severino), il discrimine tra le due ipotesi corruttive è dato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (ossia il generico asservimento della funzione di cui all’art. 318 c.p.) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio di cui all’art. 319 c.p.). Nella corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; al contrario, nella corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa.
Con il principio di cui sopra , i giudici di legittimità si sono posti in consapevole contrasto con la propria sentenza n. 29267 del 2018 secondo cui, al contrario, «configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio – e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione, di cui all’art. 318 cod. pen. – lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali».
La prima delle due sentenze è stata ritenuta la più «rispettosa sia del principio di tassatività delle fattispecie incriminatrici sia di una corretta ripartizione dell’ambito di applicazione degli odierni artt. 318 e 319 cod. pen.» con la conseguenza che se il pubblico ufficiale «non ha commesso atti formalmente contrari ai doveri d’ufficio, non può che configurarsi esclusivamente il reato di cui all’art. 318 cod. pen.» (Fonte:www.giurisprudenzapenale.com)