A pochi giorni dalle elezioni del Parlamento Europeo, la spericolata e compulsiva competizione tra i due partiti di maggioranza a chi lancia la proposta politicamente più appetibile ha partorito l’ennesima novità. “Aboliamo il reato di abuso in atti d’ufficio”, tuona il Ministro Matteo Salvini, in nome di una pubblica amministrazione che va liberata dal giogo opprimente della ipoteca giudiziaria su qualsivoglia atto di gestione della cosa pubblica. Lo stentoreo annuncio non ci offre –more solito- nessuna coordinata utile a farci almeno comprendere i termini concreti della proposta. Abrogazione “sic et simpliciter” della fattispecie? Riscrittura della norma, ed in tal caso, in quali termini? Si brancola nel buio, e magari la cosa finisce lì, con il voto di domenica. Anche perché il partner di Governo, l’On. Di Maio, ha garbatamente qualificato la proposta come “una stronzata”, il che non è esattamente il miglior viatico sul cammino di una plausibile riforma del famigerato art. 323 c.p. Tuttavia, al netto della desolante qualità del dibattito, il tema è serio, e meriterebbe di essere discusso con ben altra consapevolezza. Già nel 1997 si avvertì la pressante esigenza di riformare quella che, per come allora concepita, costituiva una vera e propria norma penale in bianco. In buona sostanza, qualunque atto amministrativamente illegittimo poteva tradursi –e spesso infatti si traduceva- in una ipotesi di reato di abuso, innescando il relativo procedimento penale. In tal modo, la Pubblica Amministrazione risultava letteralmente in balia di un controllo di legittimità operato dagli Uffici di Procura, con conseguenze devastanti per gli equilibri democratici garantiti dalla separazione dei poteri. La riforma si preoccupò di tipizzare la condotta materiale, pretendendo che la condotta di abuso si concretizzasse intanto nella violazione di specifiche norme di legge o di regolamenti; che quella violazione fosse produttiva di un vantaggio economico per lo stesso pubblico ufficiale o per terze persone, o causativa di un danno per terze persone; e poi che tali conseguenze fossero intenzionalmente volute dal Pubblico Ufficiale, così imponendosi alla Pubblica Accusa un onere probatorio decisamente complesso. La giurisprudenza ha tuttavia opposto una diffusa resistenza allo spirito della riforma, soprattutto includendo in via interpretativa, tra le leggi di cui la norma esige la specifica violazione, addirittura l’art. 97 della Costituzione, cioè il generale principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione, così eludendo lo sforzo di tipizzazione della fattispecie esplicitamente perseguito dal legislatore; e poi indugiando in motivazioni apodittiche e stereotipate in ordine alla “intenzionalità” della condotta del pubblico ufficiale. Insomma, gli Uffici di Procura nel nostro Paese rinunziano malvolentieri ad esercitare il proprio potere di controllo sulla quotidiana attività dei pubblici amministratori, ad onta dello spirito esattamente opposto che aveva animato la riforma del 1997. Dunque, è vero che il mestiere del Pubblico Amministratore è oggi strozzato da migliaia di leggi, decine di migliaia di regolamenti, violare i quali è assai probabile, per non dire inevitabile. E se al controllo fisiologico della giustizia amministrativa (TAR e Consiglio di Stato), già soffocante, si aggiunge quello –tremendo- di chi è titolare dell’azione penale, il risultato è sicuramente paralizzante. Spesso, per di più, è inutilmente paralizzante, perché le innumerevoli indagini penali, con conseguenti ricadute politiche e personali gravissime, in grande percentuale si risolvono, anni dopo, in un nulla di fatto, o in assoluzioni a babbo morto, a causa della pretestuosità delle ipotesi accusatorie, quando il danno politico e personale è ormai inferto. Sarebbe dunque ora di ragionare su un nuovo intervento riformatore – se non radicalmente abrogativo- che riuscisse finalmente a prevenire interpretazioni arbitrarie degli Uffici di Procura (e della giurisprudenza), escludendo per esempio almeno la violazione dei regolamenti dalla fattispecie di reato. Insomma, il principio per il quale un atto amministrativo illegittimo non può e non deve tradursi automaticamente in un reato, e può dunque essere sanzionato dalla giustizia amministrativa senza che sia necessario l’intervento di una Procura della Repubblica, è tutt’altro che una “stronzata”, per usare il linguaggio del Ministro Di Maio. Ma sarà mai possibile discuterne con serietà e cognizione di causa?