MA NON SI BARA AL TAVOLO DEL PROCESSO di Gian Domenico CAIAZZA

 

Sulla legge “spazzacorrotti” ho avuto modo di esprimere da tempo, e ripetutamente, tutte le ragioni che mi inducono a considerarla una pessima legge, prodotto perfetto di un populismo penale nel fulgore del suo successo. Pene accessorie sempiterne, che sopravvivono perfino alla riabilitazione; ossessiva idolatria dell’incremento della pena, e della sua esecuzione carceraria; e chi più ne ha, più ne metta. Senonchè, si tratta di una legge che, piaccia o no, in questo momento storico esprime perfettamente il pensiero, i sentimenti e la volontà della maggioranza dei cittadini italiani, i quali -si sa- amano approcciarsi al tema della giustizia penale come le tricoteuses durante la rivoluzione francese. In prima fila sotto il palco della ghigliottina, oggi non più con i ferri da maglia ma chattando con i telefonini, a godersi lo spettacolo delle decapitazioni (fino a quando la capoccia non sia la propria, o di parenti o amici). Fino a qui, siamo dentro il gioco della democrazia: le maggioranze legiferano e governano (e la Corte Costituzionale, per fortuna, vigila). Ma c’è un principio fondamentale del processo penale che non è lecito violare mai, e che si sottrae ad ogni possibile giustificazione politica: le regole del gioco non si cambiano a partita in corso. Questo è invece quello che purtroppo avviene in forza di quella norma della “spazzacorrotti” che ha inserito i reati della pubblica amministrazione nel catalogo di quei reati (mafia, violenza sessuale aggravata etc) cosiddetti “ostativi” alla concessione di misure alternative alla detenzione (quando la pena da espiare è contenuta nei limiti dei quattro anni, beninteso). L’idea che un peculato debba essere trattato alla stregua di una associazione mafiosa o di uno stupro di gruppo dà la dimensione tangibile di quali assurdità possa produrre il populismo giustizialista, e tuttavia è una scelta della attuale maggioranza parlamentare. Si dirà: ma il catalogo dei reati contenuti nel famigerato art. 4 bis dell’ordinamento Penitenziario, originariamente limitato ai reati di mafia e terrorismo, era già stato implementato da precedenti governi, sempre con logiche -diciamo così- “simboliche”. Certamente, ma con una decisiva differenza: la modifica è stata sempre accompagnata da una norma transitoria, che si preoccupava di stabilire che quella modifica operava “per i reati commessi successivamente all’entrata in vigore della presente legge”. Eccola, la regola di civiltà inderogabile, il minimo sindacale per un paese civile, quale che sia la maggioranza politica che lo governa. Una regola elementare, che significa questo: sappiano i cittadini che, da oggi in poi, chi commette reati contro la pubblica amministrazione sarà trattato come un capomafia o come uno stupratore di bambini. Ma nella spazzacorrotti quella norma transitoria non c’è. Dimenticanza? Insipienza tecnica? Scelta politica? Sta di fatto che ora accade questo: un imputato di peculato, d’intesa con il suo difensore, ha scelto di non difendersi patteggiando la pena, o di difendersi in modo affievolito chiedendo di essere giudicato con rito abbreviato, nella certezza che la normativa in quel momento gli riconoscesse il diritto di richiedere la espiazione della pena in forma alternativa al carcere. Oggi d’improvviso, al momento della esecuzione della pena, vede quelle regole drammaticamente modificate. Quelle regole non valgono più, l’art. 4 bis ora riguarda anche te, non lo sapevi? Beh, ora lo sai. A quale pensiero giuridico, a quale idea politica, a quale concezione dello Stato può iscriversi un simile abominio? Uno Stato può decidere di fare la faccia feroce, e cambiare nel modo più drastico le proprie regole di convivenza: ma da quel momento in poi, non per il passato. Questo non è uno Stato più severo, o giustizialista, o populista: questo è un baro seduto al tavolo del gioco democratico.

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